Volare si Può, Sognare si Deve!

Scriviamo un libro

Sardegna. Vento e fuoco – testo di Egle Farris


Mi prendo le parole della nostra grande Grazia Deledda .

“Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo: è da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così, come canne?”

“Sì”, egli disse allora, “siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.”

“Sì, va bene: ma perché questa sorte?”

“E il vento, perché? ……”

Perché il vento, amato e adorato dai sardi e da sempre  abitante di luoghi benedetti dal cielo ,ricchi di verde e di sale,  di  mare e di profumi di mirto e di cisto e di ginepri e di elicrisi, di corbezzoli e tamerici, è il complice involontario ed inconsapevole di individui senza morale, senza anima, senza vergogna, che strappano la dignità ad  un popolo tutto.

Perché il vento porta col fuoco morte, pianto, desolazione. Vedo bruciare anche il futuro della mia terra, inaridita sempre di più, devastata sempre di più, tribolata sempre di più, se mai ce ne fosse il bisogno .

Vedo cogli occhi della mente figuri senza scrupoli seppellire speranze di ripresa, vedo decine di contadini colle lacrime che scendono ignare da occhi ormai inariditi, uomini che hanno sacrificato vite per una qualsiasi attività rurale, vedo innocenti animali, bruciati vivi e terrorizzati, senza alcuna speranza di fuga o salvataggio. Perché questa non è più la terra dove noi sardi nasciamo, ma una terra che non lo ricorda più, una terra che non importa più a nessuno e prima di tutto a coloro che si dicono sardi, ma non ne comprendono il significato.

E così piango anche oggi  per i vecchi indifesi, i bambini dagli innocenti ed impauriti occhi, che devono abbandonare le loro case, gli uomini valorosi ed umili che si prodigano, gli animali incolpevoli.  Piango un’isola che era Sardegna ,benedetta dalla natura e dalle stelle. Piango perché non l’abbiamo più ,depredata, rubata, vilipesa, venduta, metro dopo metro per pochi centesimi, da individui senza scrupoli ad individui senza alcuna morale. Piango perché non la natura ha prodotto tutto questo che l’ha spazzata in poche, angoscianti ore, ma uomini laidi ed ignobili che per quattrini hanno distrutto boschi secolari, spiagge dorate sostituite da un cemento che ha inquinato anche le anime, piango, eppure desidero che le parole di Grazia Deledda possano darmi una speranza, quella che cambieremo.

“E il vento, perché? ……”

Perché in Sardegna non si viene per una settimana a vedere la Costa Smeralda ed andarsene in fretta, in Sardegna si deve nascere. E non bisogna dimenticarsene. MAI .

Una signora col rossetto                                                                                          Egle Farris


Surrealismo – Testo di Egle Farris


Quanto dura un’eternità? Io ci vivevo da allora, nel freddo di una soffitta  sempre buia di Pattada. Ed un giorno più gelido degli altri si aprì con uno schianto un ampio varco nel tetto e tanti cristalli bianchi e svolazzanti inondarono di luce la mia oscura dimora. Sentii voci, grida e concitati passi salire verso di me. 

Un moto di paura mi assalì istantaneo.  Diommio non avevo più visto nessuno da …100 anni? Le voci corsero verso le macerie ma a disagio eppure con una sorta di commozione, sentii su di me uno sguardo indagatore ed una  calda mano femminile carezzarmi piano, piano  ma con entusiasmo. 

E dopo qualche giorno mi ritrovai, intontito e sballottato, in un luogo luminoso, con quelle calde mani che continuavano con le carezze.

Venni girato, rovesciato, tastato, disinfettato, certo non dovevo essere molto profumato, scusate sono un gentiluomo, ma certe cose non si possono tacere, d’altronde avevo sopportato decine di sipepe  per una vita intera! Poi un altro pennello fece finalmente finire  il rasp-scrunch  rasp- scrunch rasp-scrunch di quelle affamate bestioline appellate tarli , ed infine  venni stuccato, lucidato ed incerato con una aromatica  e morbida  crema ambrata. Ed eccomi qui, in un soleggiato salone, orgoglioso di dare asilo ad una piccola raccolta di vecchie tazzine,  non così come me, beninteso, e dove i miei simili sono più o meno coetanei, ma quella lampada, istoriata e belloccia, con il solo  stoppino  niente da dire, quella che mi sta in testa, sul marmo insomma, eh, no! quella non me la dà a bere. Quella che dichiara con sussiego di avere cento primavere ed invece si vede benissimo, sicuro come le tasse e la morte, brrrrr, dicono gli inglesi,  che ne ha almeno il doppio. Ah !  sesso femminile, tutte uguali! Cosa non farebbero o direbbero pur  di ringiovanirsi ai nostri occhi  di macho!

Spengo la luce. Buonanotte a tutti.

 

Un vecchio comodino  e una signora col rossetto                                Egle Farris


 

Sono li con voi, la lavanda, le emozioni. Testo di Egle Farris


Ph. Lorella Luche

Il viola appassionato ed avvincente é nato un giorno di primavera in un campo di lavanda.

Deve aver cercato a lungo un luogo come questo dove i filari vanno dritti verso l’orizzonte come se fossero invitati a un ballo con l’infinito.

L’aria é impregnata di lavanda. Solo profumo di lavanda e vento, che se ne porta altri della nostra Sardegna.

Mi piace pensare che se l’amore avesse un profumo sarebbe quello dei campi di lavanda che impregna l’aria al sorgere del sole donando ai filari, accarezzati ai raggi, mille sfumature di colore.

Sarei voluta essere li con voi e camminare su una strada costeggiata da campi di lavanda.

Dicono che gli steli di quei fiori siano così alti che i prati dove crescono sembrano una distesa blu-viola come l’oceano.

da una finestra avrei voluto scorgere i campi di lavanda: lillà, violetti,celesti, azzurri.

Guardarli e annusarli sarebbe stata la felicità.

In Provenza nasce la leggenda della Fata Lavandula che i suoi occhi blu e le sue lacrime piene di tristezza diede origine ai fiori di lavanda. Questa leggenda é legata al paese di Velensole, dove a luglio si svolge proprio la festa della lavanda; qui si narra che la Fata Lavandula, dagli occhi azzurri e i capelli biondissimi, nata fra le lande selvagge della montagna di Lure, un giorno decise di cambiare vita e di cercare un nuovo posto da abitare. Prendendo un librodi paesaggi vide le valli della Provenza che in quell’epoca erano aride e brulle, senza vita, cos^ la fata, presa dallo sconforto si mise a piangere e le sue lacrime macchiarono di blu le pagine del libro; per rimediare al danno fatto Lavandula prese un pezzo di cielo e lo stese sulle lande desolate della Provenza e da allora su quelle terre deserte iniziarono a nascere ricche distese di fiori blu, e si dice anche che le ragazze bionde nate in quelle terre abbiano anch’esse negli occhi il color della lavanda.

E poiché molte leggende le attribuiscono un messaggio particolare, ossia “il tuo ricordo é la mia unica felicità”, regalare quindi una pianta o un rametto di lavanda potrebbe nascondere un messaggio di amore o di sincera amicizia, o mettere in luce un legame molto profondo.

Fiore messaggero di amore, di amicizia, di diletto, mi commuovi ed incanti col tuo leggero profumo che permane per tantissimo tempo e col tuo splendido colore.

In una distesa di lavanda vorrei fare bracciate di meraviglia.

Una signora col rossetto a tutte le amiche ed amici.


 

La bottega dei desideri – Testo di Egle Farris


Per me che venivo da un piccolo paese ,dove esisteva un solo emporio  con tre portoni, di cui due eternamente chiusi e senza vetrine e che vendeva indifferentemente zappe e zucchero  in zolle irregolari, conservato in grossi sacchi di juta, che te ne trovavi sempre un filo tra i denti, scampoli e concimi, chiodi e bottoni, lana e damigiane, vedere quella piccola vetrina ed innamorarmene fu tutt’uno.  Faceva angolo tra la piazza e via Università e dovevi piuttosto indovinare cosa c’era dietro quei vetri opachi ,dove la polvere regnava sovrana e tiranna .  Ma dentro, ah, dentro trovavi bocce di vetro piene di girelle ,radici e more e nastrini di liquirizia, ciucci collosi e gelati di zucchero dai colori improbabili, bracciali e collane di corallini confettati e amabili ,mentine iridate e gomme americane dalle forme  sferiche ,stirate e arrotolate .  E i fruttini cotognata Zuegg ( dove sono finiti ?) e i minuscoli biberon ripieni di un finto rosolio e i morettini  dal cuore che sapeva di panna e ricoperti di un croccante, impareggiabile cioccolato, che era un piacere soave scrocchiarlo coi denti,  nascosti silenziosamente dietro una tenda, e i cremini Ferrero che si scioglievano in bocca .  Il tutto in una folle mescola con il lievito e l’ovolina Bertolini,  l’Idrolitina e lo sciroppo Fabbri ,rigorosamente gusto amarena. E quando  entravo e trovavo qualcuno che comprava concentrato di pomodoro versato col mestolo di legno dai bordi sempre neri , sulla carta oleata  e i capelli d’angelo a matassine, tirati su da un oscuro cassetto e si attardava a scegliere altra pasta da quei tiretti dalle maniglie a forma di conchiglia  e tre etti di zucchero ed uno di caffè, mi pareva di perdere tempo ad aspettare il conto rigorosamente scritto sulla carta da involto con una matita sempre bagnata con la saliva, perchè attardava  il momento di assaggiare  delizie, che nella mia testolina di bambina ingenua e fantasiosa mi dicevano “prendimi, prendimi ” e non potessero aspettare e pensavo ancora fossero loro che potevano aprirmi  la porta a quelli che allora mi sembravano sapori paradisiaci, adesso così irrimediabilmente lontani e dimenticati. Ed inaspettatamente  riportati al mio tempo attuale solo da una passeggiata in una notte troppo tiepida e solitaria ed  uno sguardo nostalgico a quell’angolo che, nella penombra, era rimasto intatto ed incontaminato come allora.

La signora col rossetto                                                       Egle Farris


FREEZING DELLA MARCIA 2 di Kai S. Paulus

Fog

(seguito di “Freezing della Marcia)

 

 

Ora cerchiamo di addentrarci nei meccanismi cerebrali e fisiologici da cui origina il FoG, senza essere troppo tecnici. Per tornare sulla muraglia citata nella prima parte, Franco, Baraba e Soleandro si sono fermati ed ora discutono insieme la questione.

 

Patofisiologia

La scienziata belga Alice Nieuwboer distinse nel 2013 quattro meccanismi diversi che potrebbero stare alla base del freezing della marcia, FoG:

1) il modello di soglia, in cui si accumulano le difficoltà nella deambulazione (passi piccoli, strascicati, rallentati, difficoltà nei passaggi e cambi posturali, ecc.) che poi, quando superano una certa soglia, portano ad improvvisi blocchi motori;

2) il modello di interferenza, in cui si presume che i circuiti motori e cognitivi, strettamente interconnessi, siano competitivi e complementari; nel Parkinson, i neuroni dopaminergici sono compromessi per cui l’elaborazione delle informazioni si sposta eccessivamente sui circuiti cognitivi/emotivi causando un sovraccarico delle capacità di elaborazione di informazioni all’interno dei gangli della base (centro di selezione e integrazione del movimento, principalmente ammalato nel Parkinson). Questo modello spiegherebbe anche il fenomeno delle difficoltà nei dual task (capacità di compiere due azioni contemporaneamente, per es. camminare e parlare, o camminare e portare un vassoio, ecc.) con interruzione dei programmi motori durante accrescente carico cognitivo, e quindi il blocco;

3) il modello cognitivo, che presume un deficit tra conflitto (neuronale, associativo) e sua risoluzione. In condizioni normali, si è in grado (inconsciamente) di prevenire azioni premature e di ritardare la selezione di risposta fino alla risoluzione del conflitto; invece, in caso di FoG tale prevenzione fallisce con decisione troppo rapida e maggiore incongruenza, che alla fine porta al FoG.

4) il modello scoppiato che prevede una separazione tra il programma motorio pianificato e la risposta motoria, e quindi la “idea” di fare qualcosa non potrà essere eseguita.

Per comprendere meglio i blocchi motori, e soprattutto al fine di una possibile prevenzione, è importante tener presente diversi fattori che possono predisporre negli anni allo sviluppo del freezing.

 

Fattori di rischio predisponenti al FoG:

sesso maschile: in linea con le evidenze scientifiche, le differenze di genere osservate tra i sintomi motori e non motori sono probabilmente dovute all’influenza degli estrogeni nella sintesi di dopamina;

durata di malattia: il FoG si presenta comunemente negli stadi avanzati di malattia;

instabilità posturale e difficoltà nella marcia all’inizio di malattia: i sintomi parkinsoniani variano in base al livello di lesione dei circuiti dopaminergici o di selezione di movimento; precoci difficoltà nella deambulazione predispongono pertanto al FoG negli stadi futuri, perché una loro naturale evoluzione;

fluttuazioni motorie: le fluttuazioni motorie sono associate ad un grado maggiore di deplezione dopaminergica che quindi predisponenti al FoG;

festinazione: apparentemente la festinazione, la camminata veloce a piccoli passi con tronco inclinato in avanti (inseguire il proprio baricentro), sembra il contrario del FoG. La festinazione probabilmente è dovuta ad un progressivo ritardo dell’elaborazione temporale di schemi motori nelle proiezioni nervose che vanno dal nucleo pallido interno (nei gangli della base) fino all’area premotoria e quella motoria supplementare nella corteccia. Pertanto, i passi diventano sempre più corti fino a raggiungere un limite al quale le aree corticali non riescono più a distinguere lo schema fasico del movimento, necessario a generare il prossimo passo in sequenza portando alla fine al blocco motorio ed al FOG.

 

Tra i sintomi non motori che possono rappresentare un fattore di rischio di FoG ci sono:

  • disturbi cognitivi: i domini cognitivi probabilmente coinvolti nella generazione di FoG sono la “velocità di elaborazione basale”, “l’abilità di apprendimento“, e le “capacità visuo-spaziali ed esecutive”. Il coinvolgimento delle alterazioni cognitive nel FoG viene illustrato tramite il seguente modello: in condizioni normali le azioni premature (non ancora controllate per la loro fattibilità) vengono evitate oppure ritardate finché l’eventuale conflitto decisionale sarà risolto [tenete presente che siamo dentro i circuiti neuronali del cervello e tutto si svolge al di fuori della nostra coscienza, nel lasso di tempo di pochi nanosecondi]. Invece, se tale sistema di prevenzione/ritardo non funziona, allora viene imposta una più veloce decisione di risposta con maggiore incongruenza ed errore e formazione del blocco motorio.

ansia e depressione: in studi di Risonanza Magnetica Funzionale si è osservato che nei “Freezer” c’è un interessamento dei circuiti limbici/emozionali con una specie di sovraccarico tra la rete limbica corticale e sottocorticale da una parte, e lo striato (putamen e globo pallido) ventrale (quello dorsale è responsabile dei sintomi motori) dall’altra; tale meccanismo di sovraccarico potrebbe spiegare come l’ansia e depressione (che nascono nel sistema limbico) possono predisporre al FoG.

sonno: dati controversi esistono per una eventuale predisposizione dei disturbi del sonno, ed in particolare il “disturbo comportamentale nella fase REM” che causa sonno agitato e sonniloquio, ed alcuni studi ipotizzano addirittura una comune genesi tra questi due fenomeni apparentemente molto distanti.

parola: disturbi del linguaggio (disartria, ipofonia, tachifemia, ecc.) sembrano essere maggiormente presenti in persone che poi svilupperanno il FoG.

parametri neuroradiologici: recenti studi ipotizzano un valore predittivo per sviluppare il FoG quando, all’esordio della malattia, alla scintigrafia (SPECT DATscan) si osserva un maggiore interessamento del nucleo caudato (oltre al putamen, sempre compromesso), ed alla risonanza magnetica encefalica, delle maggiori iperintensità nella sostanza bianca sottocorticale, causando probabilmente delle interruzioni delle vie associative corticali e di quelle motorie striato-frontali.

terapia: paradossalmente, la stessa terapia dopaminergica viene tirata in ballo come fattore di rischio nella comparsa dei blocchi motori, e pertanto si parla di FoG levodopa responsivo, FoG levodopa resistente, e FoG indotto da levodopa. Alcuni studi avrebbero osservato che il FoG quasi non esisteva prima dell’era della levodopa ed hanno conseguentemente concluso che il FoG sarebbe dovuto proprio alla stessa levodopa con lunghi ed alti dosaggi. Altri studi invece sostengono che prima non si è osservato il FoG perché non ci si badava essendo le persone talmente ammalate che non camminavano per niente e che l’aspettativa di vita era molto ridotta. In effetti, la clamorosa efficacia della somministrazione di dopamina si ottenne proprio con la quasi miracolosa scomparsa temporanea del freezing prolungato all’inizio degli anni ‘60.

– infine, vengono discussi da parte della ricerca internazionale anche dei biomarker presenti nel liquor cerebrospinale, come il Beta-amiloide 1-42 (Ab42), di cui al momento però non esistono risultati univoci.

 

(segue Freezing della Marcia 3)

 

Fonti bibliografiche:

Bharti K, Suppa A, Tommasin S, Zampogna A, Pietracupa S, Berardelli A, Pantano P. Neuroimaging advances in Parkinson’s disease with freezing of gait: a systematic review. NeuroImage: Clinical, 2019; 24: 1-16.

Gao C, Liu J, Tan Y, Chen S. Freezing of gait in Parkinson’s disease: pathophysiology, risk factors and treatments. Translational Neurodegeneration 2020, 9: 12-34.

Koehler PJ, Nonnekes J, Bloem BR.  Freezing of gait before the introduction of levodopa. Lancet Neurol 2021; 20: 97.

Marques JS, Hasan SM, Siddiquee, Luca CC, Mishra VR, Mari Z, Bai O. Neural Correlates of Freezing of Gait in Parkinson’s Disease: An Electrophysiology Mini-review. Frontiers of Neurology. 2020; 11: 1-12.

Nieuwboer A, Giladi N. Characterizing Freezing of Gait in Parkinson’s Disease: Models of an Episodic Phenomenon. Movement Disorders 2013; 11; 1509-1519.

Nonnekes J, Bloem BR. Biphasic Levodopa-Induced Freezing of Gait in Parkinson’s Disease. Journal of Parkinson’s Disease 2020;10: 1245-1248.

Weiss D, Schoellmann A, Fox MD, Bohnen NJ, Factor SA, Nieuwboer A, Hallett M, Lewis SJG. Freezing of gait: understanding the complexity of an enigmatic phenomenon. Brain 2020;143:14-30.

 

Divino Geminiano – Testo di Franco Simula


Si accomodi il signor Di-vino
Dopo un attimo di titubanza capisco l’equivoco anzi la…profonda confusione mentale dell’infermiere che aveva l’incarico di chiamare i pazienti in attesa nell’androne affollato dell’ospedale. Giuseppina che era più vicina di me all’incaricato della “chiama”, capisce tutto in un attimo e, agitando la mano, “Geminià ti stanno chiamando per la visita”.

Io rispondo: “Presente” ma subito aggiungo: “Io, però, non mi chiamo Di-Vino, mi chiamo Bevitori” L’infermiere, magari un po’ suonato, che certamente voleva far lo spiritoso e aveva affibbiato a Geminiano l’appellativo di Divino avrà fatto un ragionamento semplice semplice che chiunque avrebbe potuto fare. Quando nell’elenco ha letto “Bevitori”, l’allocco infermiere ha operato una sua personale e repentina associazione di idee “Bevitori di che cosa se non di vino”? E Di-Vino sia! ” Allora è presente Divino Geminiano?”

“Ma che dice? Mi chiamo Bevitori non mi chiamo Divino”.

La cervellotica gaffe suonava musicalmente bene tanto che la memoria distratta dell’infermiere l’aveva registrata immediatamente: Bevitori=Di-Vino. L’incauto infermiere ridacchiando insisteva su questa sua geniale spiritosaggine aspettando il consenso divertito degli astanti. Per lui, infatti, Divino oltre ad essere il nuovo cognome di Geminiano era certamente un appellativo più consono, più solenne, più esaltante, più dio.

Bevitori altro non è che il plurale di bevitore che sa troppo di taverna e di beoni. Divino invece è il massimo dell’aspirazione di ogni uomo, è l’umanità esaltata alla ricerca della perfezione più alta.

Non si sa bene se il malaccorto infermiere abbia pensato tutte queste cose: coscientemente o no. Sta di fatto che Geminiano è salito agli onori della cronaca amicale (questo proprio sì) grazie alla pedestre sbadataggine di un infermiere che – inconsapevolmente – per una balzana connessione mentale ha collocato Geminiano fra le divinità dell’Olimpo di recente, infermieristica, costituzione.


 

Paolino – Testo di Franco Simula


1° Ottobre 1942

1° Ottobre 1942, primo giorno di scuola. Una di quelle calde giornate di inizio autunno che ti fanno sognare ancora giochi fantastici nelle strade e nelle piazze di paese ancora occupate da lenzuoli ricoperti di uva, fichi, sorbe, posti a seccare prima di diventare regalo desiderato nelle “cerche” per i morti; noi ragazzi di prima elementare– ancora tutti spaesati- dovevamo andare a rinchiuderci a scuola.

Eravamo in 36 in quella prima classe guidata da una maestra alta alta, per noi bambini piccoli piccoli e frastornati. Nell’atrio della scuola nessuno sapeva che fare, nessuno sapeva dove andare anche perché eravamo controllati e minacciati a vista da “tiu Giuanne su bidellu” che pur avendo una protesi di legno alla gamba destra, ci teneva tutti a bada con una voce minacciosa che ci metteva paura, brandendo di lontano il suo nodoso bastone peraltro mai usato.

Anche Paolino, che abitava vicino a una delle piazze del paese più frequentate da noi ragazzi, aveva risposto “presente” con allegria all’appello della maestra, mostrando tutta la vivacità che un bambino di sei anni sa sprigionare.

L’appello si era concluso senza i problemi che, a nostra insaputa, avevano colpito alcuni nostri coetanei che, in altre parti d’Italia, erano stati allontanati dalla scuola o danneggiati dalle leggi razziali emanate dal governo fascista sin dal 1938 . Noi non sapevamo niente di tutte queste cose che capitavano a molti chilometri dalla periferia del nostro paese.

Soldati tedeschi nell’atto di rimuovere la sbarra di confine, alla frontiera tra la Germania e la Polonia, il 1º settembre 1939

Così come non sapevamo che nel 1939 la Germania aveva invaso la Polonia e che alle proteste formali di Inghilterra e Francia la Germania aveva reagito invadendo quest’ultima e addirittura occupando Parigi. I travolgenti successi nazisti avevano spinto Mussolini ad allearsi con Hitler e a entrare in guerra contro Francia e Inghilterra per non rimanere escluso dai possibili vantaggi di una vittoria ormai ritenuta imminente.

Dopo un esordio abbastanza favorevole, l’impresa militare italiana contro i paesi alleati da qualche tempo cominciava a registrare qualche insuccesso. Le brillanti e inarrestabili operazioni della prima sorprendente fase di guerra che sembravano dover assegnare una vittoria repentina all’esercito tedesco, col quale il Governo italiano aveva stretto un’alleanza, erano state riequilibrate da una inevitabile azione di resistenza che andava gradualmente organizzandosi in varie parti d’Europa. Nonostante la disfatta subita in Grecia, la sconfitta patita fra le dune del deserto ad El-Alamein e la penosa odissea dei soldati italiani in Russia, la propaganda fascista continuava a prospettare come vicinissima ormai la fine della guerra con una scontata vittoria della Germania e dell’Italia.

In questa Italia ormai già concretamente provata dalla mancanza di viveri e di altri beni di prima necessità che scarseggiavano sempre di più, nell’anno scolastico 1942-43 noi bambini di sei anni fummo chiamati a frequentare la prima classe elementare. Si, fummo chiamati; come i militari alla guerra. Perché la cultura, e più specificamente la cultura fascista, faceva parte di quel complesso di doveri civici che il cittadino fascista sin da bambino doveva imparare ad osservare.

Ma queste cose noi non le sapevamo; erano troppo grandi per noi e forse troppo grandi anche per le nostre maestre che non ci parlavano assolutamente di leggi razziali o di guerra; tutt’al più le maestre chiedevano agli alunni se qualcuna delle loro mamme aveva delle uova o dell’olio da vendere: la guerra faceva sentire i suoi effetti anche nei nostri paesi ma soprattutto in città da dove le nostre insegnanti provenivano.

A scuola avevamo cominciato a fare le aste e i cerchietti.

Giuseppe era molto bravo, era capace di allineare le aste-tutte dritte- con una precisione che solo un bambino esperto, attento ed intelligente sapeva fare; Lino, un po’ svogliato, riusciva a riempire solo mezza paginetta in una mattinata; Paolino qualche giorno lavorava di buona lena, qualche altro giorno si lasciava prendere dalla malinconia, faceva poche aste e pochi cerchietti e poi si sbizzarriva a disegnare tante case e tanti soli: le case illuminate da soli grandi grandi lo affascinavano in maniera irresistibile. Ma la maestra lo richiamava alla composizione di aste e cerchietti che erano la base delle future letterine dell’alfabeto: e Paolino obbediva docilmente e ricominciava a tracciare aste e a comporre cerchietti il più rotondi possibile. Pasquale invece non ne azzeccava proprio una: le sue aste erano tutte storte, sembrava che le indicazioni impartite dalla maestra producessero risultati completamente opposti, anche i cerchietti sembravano corallini dalle forme più svariate messi insieme per formare strani mosaici di cui solo lui conosceva l’arcana ispirazione e il misterioso significato perché un significato ce l’avevano. Giovanni si presentava un po’ timido e indifeso,introverso e di poche parole anche perché di parole diverse dalla lingua sarda ne conosceva proprio poche.

Noi non sapevamo, ma la guerra continuava con le sue distruzioni e le sue stragi; i tedeschi -sostenuti dagli alleati italiani-stavano conseguendo significativi successi nella loro “campagna di Russia”: dopo un’avanzata non priva di ostacoli ma comunque inarrestabile arrivarono alle porte di Stalingrado e si apprestavano già a occuparla quando i sovietici opposero una disperata e lunga ma valorosa resistenza.

La maestra, a ottobre inoltrato,cominciò a farci scrivere le prime letterine dell’alfabeto: dopo l’esercizio prolungato con aste e cerchietti, non era possibile rimandare all’infinito le esercitazioni sulle lettere dell’alfabeto e anche se il lavoro diventava sempre più difficile occorreva imparare a ricopiare dalla lavagna ciò che la maestra di giorno in giorno ci proponeva: prima le vocali e poi ad una ad una le consonanti dalle più semplici alle più difficili come se per noi bambini esistessero consonanti più facili e la trascrizione di quelle letterine non fosse sempre una fatica improba. Non tutti gli alunni riuscivamo a imparare negli stessi tempi: c’era chi aveva già imparato a scrivere tutte le letterine e chi ancora annaspava con fatica fra aste e cerchietti.

Intanto si instauravano le prime amicizie non più solo con i compagni di strada ma anche con ragazzi che provenivano dalle parti più lontane del paese. Un giorno due squadre di ragazzi decidemmo di incontrarci in Piazza Tola (era la piazza dove si svolgeva il mercatino del martedì che già da allora era sistemata con mattonelle quadrate) per sfidarci a Italia-Francia, un gioco che praticavamo con molta frequenza da bambini. Non occorrevano attrezzi particolari:bastavano buone gambe e grande agilità nella corsa. Si divideva la piazza in due parti uguali usando la pipì per fare la linea di demarcazione. Il gioco era semplice:si formavano due squadre ciascuna con una bandiera che veniva fissata nella parte più lontana dalla linea mediana e i ragazzi delle due squadre avversarie vincevano se riuscivano a prendere la bandiera della squadra nemica e riportarla nel proprio campo. Se nell’azione di conquista della bandiera avversaria si veniva acchiappati da un ragazzo dell’altra squadra si rimaneva prigionieri sino a quando non arrivava la liberazione da un compagno della propria squadra.

La sera imbruniva troppo presto e il pensiero correva immediatamente alla scuola. O meglio: alle aste, ai cerchietti,alle letterine dell’alfabeto ai numeri. Mai che le maestre ci parlassero della guerra. Se non nei termini che la propaganda del regime imponeva. E cioè informandoci in maniera molto superficiale e approssimativa sulle azioni di guerra che andavano bene per l’Italia e soprattutto sul valore degli italiani che si stavano comportando da eroi. Eppure gli effetti di questo doloroso evento che interessava tutti direttamente o indirettamente li pativamo anche noi bambini, perché tutti ci rendevamo conto di persona che scarseggiavano i viveri, che molti dei nostri padri o dei nostri zii erano partiti per la guerra. Improvvisamente un giorno cominciammo a sentire l’urlo delle sirene:prima con cadenza sporadica ma col passare delle settimane sempre con maggior frequenza. Il suono particolare delle sirene veniva diffuso da più altoparlanti sistemati in punti strategici del paese: per i militari significava che dovevano correre alle armi, per i civili la sirena era il segnale che suggeriva di raggiungere velocemente il rifugio più vicino:spesso ci si rannicchiava negli scantinati nella convinzione che sotto il livello della strada la sicurezza fosse maggiore. Ogni volta sentivamo un tuffo al cuore per la paura che capitasse la cosa più banale e verosimile: e cioè che le bombe degli aerei rombanti nel cielo distruggessero le nostre case; erano soprattutto le angosce dei nostri genitori a trasferire su di noi paure che la nostra età dell’incoscienza non ci avrebbe mai fatto provare.

La prima battaglia di El Alamein

Noi faticavamo nell’apprendere lettere e numeri mentre alcuni nostri compaesani chiamati alle armi subivano una cocente disfatta fra le dune del deserto a El-Alamein. Qualcuno dei compagni di scuola riferiva episodi di guerra raccontati nelle lettere provenienti dai campi di battaglia. Un giorno Giovanni ci raccontò -molto scosso e parlando in sardo per non perdere il filo del discorso- che un suo zio era stato ferito a una gamba, in maniera non grave, proprio nella sanguinosa battaglia di El-Alamein, ci disse inoltre che forse lo avrebbero rimandato a casa per un periodo di convalescenza.

Anche in Russia le azioni militari non andavano più tanto bene e stavolta le notizie di prima mano ci vennero date dalla maestra: ci raccontò che un suo cugino partito per la Russia aveva avuto un piede congelato e che non sapeva se sarebbe riuscito a ricuperarlo:era molto probabile un’amputazione dell’arto. Questa notizia la maestra l’aveva appresa dal cappellano militare che l’aveva riferita al parroco del paese. I soldati infatti non potevano raccontare direttamente ai familiari episodi che in qualche modo mettessero in cattiva luce l’operato del Regime. Stavolta, e finalmente, la scuola si era tolta di dosso l’orpello della propaganda e aveva raccontato un brandello di verità sui tragici fatti che stavano avviluppando l’Italia,l’Europa e il mondo intero.

Ma noi avevamo la nostra piccola grande missione da compiere: imparare a leggere, scrivere e far di conto. Anche perché se la guerra fosse continuata avremmo dovuto leggere le lettere dal fronte alle vecchie nonne analfabete desiderose di conoscere le notizie dei loro figli in guerra.

Figli della lupa

Una mattina la maestra ci annunciò che entro qualche giorno avremmo dovuto “ritirare” le divise di “Figli della lupa” per partecipare a una manifestazione in piazza Umberto. Il 4 Novembre,anniversario della vittoria,alla presenza delle autorità più rappresentative del paese il Podestà,il Segretario del PNF, il Direttore Didattico, il Maresciallo,si tenne una parata solenne come non avevamo mai visto nel paese; assomigliava molto a una delle tante esercitazioni militari che regolarmente si svolgevano nella stessa piazza: ci allinearono in fila per cinque,ci fecero marciare come maldestramente riuscivamo a fare e poi – dopo aver risposto ai discorsi del podestà col saluto fascista- ci lasciarono liberi di muoverci autonomamente. Ma le nostre reazioni furono le più strane: chi correva agitando il pomponcino che pendeva dal berretto,chi piangeva “perduto” in mezzo alla folla cercando la propria madre, chi si agitava e gridava impazzito dalla gioia,chi era rimasto impietrito in mezzo alla piazza in attesa di qualcuno che lo riportasse a scuola. La maestra si era attardata a conversare con le autorità e a programmare future manifestazioni. Poi, ci radunò al centro della piazza e in fila per due, ci fece rientrare a scuola.

Verso Natale i ragazzi che avevano dimostrato più propensione alla proposta della scuola cominciavano già a ricopiare e comporre le prime sillabe mentre ancora parecchi compagni facevano fatica con aste e cerchietti o con le letterine da ripetere per pagine intere.

Si profilavano ormai due o tre gruppi di abilità differenziate riuniti in un’unica classe. D’altronde era un fenomeno inevitabile dal momento che le provenienze degli alunni erano le più differenti:

c’erano bambini provenienti da famiglie povere e deprivate che non avevano avuto l’opportunità di esercitare in nessun modo una manualità fine, preliminare all’uso della matita prima e in seguito della penna . C’erano invece degli alunni i cui genitori erano più “acculturati” o più coscienti dell’importanza della scuola, avevano già insegnato ai propri figli a impugnare correttamente una matita e a tracciare le prime aste. Non bisogna dimenticare infatti che per i primi tre o quattro mesi di scuola per la scrittura di aste e lettere si faceva uso esclusivo della matita per esercitare la mano (solo la destra naturalmente: i mancini dovevano seguire una rigorosa autocensura) prima di passare all’uso della penna con l’inchiostro che spesso era la causa di macchie involontarie e scarabocchi legati all’inesperienza ma che tuttavia non ci impedivano di prendere le punizioni previste per i distratti e i pasticcioni.

Alle fatiche della scuola noi ragazzi cercavamo di alternare i giochi più frequenti della nostra fanciullezza: i cavallini di canna sui quali ci sbizzarrivamo in corse sfrenate, i carri a buoi costruiti con le pannocchie sgranate del granoturco che erano belle e vincenti se apparivano riccamente ornate di ninnoli e pagliuzze colorate, i pifferi ricavati dalle canne che emettevano suoni differenti l’uno dall’altro a seconda delle dimensioni,le trottole di legno che erano ben fatte se ruotavano a lungo e silenziosamente su se stesse (“sa morrocula est lebia”) senza spostarsi traballando scompostamente . C’erano due o tre artigiani del legno che avevano coltivato uno spirito ludico particolare ed erano molto bravi a lavorare al tornio queste opere d’arte-giocattolo.

Privilegiato su tutti rimaneva comunque il gioco del calcio. I militari avevano formato una squadra di calcio per ogni battaglione e quindi tutte le domeniche due squadre di calcio militari disputavano una partita nel modesto campo sportivo comunale. Avevamo imparato i nomi dei più famosi militari-calciatori e li avevamo assegnati ai più bravi dei ragazzi-giocatori: Antonio si chiamava Cisotto, Giuseppe si chiamava Rodari, Giommaria si chiamava Lotronto, Salvatore si chiamava Bovoli e così anche noi avevamo formato le nostre squadrette di calcio che si divertivano a giocare non con palloni di pelle o di gomma ma con palle ricavate utilizzando vecchie calze imbottite di stracci. Il gioco con questo tipo di palla per quanto coinvolgente era anche pericoloso perché dovevamo giocare rigorosamente scalzi (non tutti possedevano le scarpe) e , nel calciare, ci si esponeva non di rado a colpire con l’alluce il pavimento della piazza e l’unghia si distaccava dalla carne procurandoci un dolore all’inizio insopportabile: nessuno – però – si azzardava a piangere, si cercava di metterci riparo applicando alla ferita un po’ della nostra stessa pipì come i compagni più grandetti e più esperti ci avevano insegnato a fare.

Per un po’ si rimaneva a bordo piazza e poi si riprendeva a giocare cercando di calciare col piede sano. A casa non bisognava dire niente del “piccolo” incidente perché altrimenti al dolore patito si aggiungevano le punizioni familiari.

Alla fine di Marzo, poco prima delle vacanze pasquali, la maestra ci fece fare il primo dettato: si trattava di verificare se riuscivamo a scrivere delle parole di senso compiuto che la maestra scandiva abbastanza lentamente. Naturalmente non tutti riuscirono a fare per benino questo lavoro non facile: la maestra fu quindi costretta a dividerci per fasce di livello e farci eseguire dei lavori differenziati a seconda delle abilità e delle conoscenze raggiunte. Si procedette nello stesso modo anche per l’apprendimento delle operazioni aritmetiche più semplici, l’addizione e la sottrazione: ad alcuni piaceva particolarmente maneggiare i numeri e verificare – come avviene con le palline- che aggiungendo lo stesso numero a un numero base si otteneva il doppio: la cosa era persino divertente e poi i numeri sono solo dieci, quindi tutto sembrava più facile.

Intanto i battaglioni tedeschi in Russia, dopo i primi successi, cominciarono a registrare una sconfitta dietro l’altra sino a subire una disfatta totale: l’inverno russo aveva dato una mano al proprio esercito e come aveva interrotto la marcia alle truppe napoleoniche aveva arrestato anche l’esercito tedesco costretto ad arrendersi dopo la sanguinosa battaglia di Stalingrado. La notizia del tracollo tedesco si diffuse immediatamente per il mondo e anche in Italia i partiti contrari al regime rinnovarono il patto unitario antifascista mentre nelle grandi fabbriche del Nord venivano promossi una serie di grandi scioperi rigorosamente vietati dalle leggi fasciste sul lavoro. Dovunque si diffondevano fermenti di ribellione contro l’oppressione nazi-fascista. In Polonia gli ebrei del ghetto che avevano subìto sino ad allora una durissima repressione con grandi perdite di vite umane, si ribellarono ai nazisti che ancora opprimevano gli ebrei di Varsavia.

Nel nostro paese come ogni anno,si rinnovavano i riti della Pasqua: – sos sepuschos, s’iscravamentu,sa pruzzessione ‘e sos giudeos, sa missa ‘e gloria, su lunis de pascha -.E finalmente anche per noi bambini la carne d’agnello per il pranzo “de Pascha ‘e Abrile”,il pane fresco arricchito con mille ricami, “su cozzulu ‘e s’ou”, sas tiriccas, sas casadinas, e tanti frutti secchi conservati nei cassettoni avevano fatto la loro “miracolosa” comparsa nelle tavole pasquali.

Arrivata la primavera noi ragazzini potevamo trattenerci più a lungo per le piazze a giocare a Italia-Francia o a “pallone”; non di rado ci riunivamo in gruppi e andavamo per le campagne vicine a cercare “pabanzolu” o i nidi degli uccellini che ormai cominciavano a nascere: l’abilità di noi bambini consisteva nel sottrarli al loro ambiente naturale che era il loro nido e farli crescere in casa in un ambiente del tutto alieno alla loro natura: il tentativo finiva miseramente dopo pochi giorni. Le cose andavano meglio quando si riusciva a prendere qualche uccello di dimensioni più grandi, una gazza, un’upupa, una cornacchia: allora l’allevamento artificiale durava anche qualche settimana.

Con l’arrivo della bella stagione l’urlo delle sirene era diventato sempre più frequente e asfissiante anche se ormai ci avevamo fatto l’abitudine. Non poche famiglie, però, avevano preso la drastica decisione di “sfollare” in campagna nella convinzione che lì potessero corrersi meno pericoli. In campagna, però, mancavano le comodità più elementari e indispensabili e allora dopo qualche giorno decidevano di affidarsi all’ineluttabilità del destino o alla protezione della Madonna e decidevano di rientrare nelle proprie case.

L’anno scolastico volgeva ormai al termine, fra un po’ avremmo conosciuto l’esito delle nostre fatiche e promossi o bocciati ci saremmo potuti dedicare a tempo pieno ai nostri giochi in piazza e alle nostre avventure in campagna. Qualcuno dei compagni avrebbe continuato ad aiutare i propri genitori nei lavori dei campi come aveva fatto saltuariamente durante tutto l’anno scolastico: infatti noi non riuscivamo a capire perché ogni tanto Pasquale si assentava da scuola, le sue assenze coincidevano con i periodi di maggior lavoro nella campagna.

Alla fine dell’anno non tutti fummo promossi: Giuseppe era stato promosso con votazione brillante, Paolino era stato promosso a frequentare la seconda classe, Lino era stato pure lui promosso anche se con qualche difficoltà,Giovanni promosso, Pasquale, rimandato,avrebbe dovuto ripetere la prima classe nella speranza di fare meglio in futuro.

Per la maggior parte di noi erano iniziate le vacanze: le giornate erano diventate più lunghe finalmente avremmo potuto riprendere i nostri giochi in Piazza Tola, saremmo ritornati a cercare nidi a tempo pieno, avremmo continuato a vivere le nostre avventure nelle campagne più vicine al paese. Naturalmente eravamo ignari di quel che stava accadendo lontano dai nostri giochi nei teatri della guerra che si stava combattendo in vari punti del mondo.

Sbarco in Sicilia

In Italia il 10 Luglio le truppe alleate (americane,inglesi,canadesi) sbarcarono in Sicilia,occuparono l’isola dando avvio alla campagna d’Italia. Come ho già detto noi ragazzi non avevamo la percezione esatta di quelli che erano gli effetti della guerra se non per la penuria dei viveri e dell’abbigliamento e per le sporadiche e frammentarie notizie che sentivamo dagli adulti.

Qualcosa però sembrava esser cambiata anche per noi bambini: sentivamo sempre più spesso l’urlo delle sirene che ci informavano di possibili imminenti pericoli: immediatamente noi ragazzi scomparivamo dalle strade e andavamo a nasconderci nei rifugi che ciascuna famiglia si era procurato. Quasi sempre tutto finiva col passaggio sui nostri cieli di uno o più bombardieri che dopo averci spaventato proseguivano la loro marcia andando a scaricare altrove il loro carico di morte. Tante volte avevamo assistito a questi scenari al punto che ormai ci si era abituati ad entrare e uscire dai rifugi come se giocassimo a nascondino.

Un giorno però, verso le dieci del mattino, capitò qualche cosa di diverso, di mai visto, che attirò immediatamente l’attenzione di noi ragazzi: sentimmo di lontano un crepitare di mitragliatrici e un guizzare abbagliante di fulmini nel cielo assolato del 30 luglio: una battaglia furibonda fra aerei inglesi e tedeschi si era scatenata d’improvviso. Un aereo inglese ( lo sapemmo in seguito) aveva colpito con le sue mitragliatrici un aereo tedesco che era precipitato in fiamme lanciando nel cielo delle lingue di fuoco e un’improvvisa e densa scia di fumo. Per noi la guerra erano i militari ospitati nelle chiese sconsacrate di Monserrato e del Carmelo e in alcune case private,erano i soldati che passavano per il Corso intruppati per andare a fare esercitazioni al poligono di tiro ricavato in un angolo del vecchio campo sportivo, era il comunicato che la radio collocata in una casa del Corso (“in su Bigliasdhu”) tutte le sere diffondeva con la voce gracchiante e carica di enfasi della radio del regime.

Quel giorno però ci prese una strana eccitazione , volevamo andare quanto prima a vedere l’aereo precipitato ma soprattutto volevamo andare a vedere un aereo da vicino. E in effetti il passa parola tra ragazzi durò pochissimo: nel giro di mezz’ora centinaia di bambini – compresi Tommaso, Silvio, Paolino – ci eravamo radunati nelle vicinanze dell’aereo precipitato. Non potevamo avvicinarci, come avremmo voluto, perché una cinta imponente di carabinieri e di militari dell’esercito impedivano a chiunque di avvicinarsi al relitto.

Per quel giorno ci bastò vedere di lontano dei rottami fumanti e un odore acre di qualcosa di insolito che non apparteneva agli odori che ci erano familiari come il fumo delle stoppie bruciate.

Apprendemmo più tardi che due dei piloti tedeschi erano morti e altri due erano rimasti gravemente feriti. Rimanemmo a lungo nel luogo dell’incidente cercando di interpretare tutti i movimenti che vedevamo di lontano, ma per quel giorno non fu possibile avvicinarci:ci saremmo ritornati l’indomani.

La notizia dell’accaduto si era propagata in un attimo per tutto il paese e già le nostre mamme avevano deciso di prendere contromisure adeguate per impedire che i propri figli, spinti dalla curiosità e dal desiderio di scoprire, rischiassero di raccogliere qualche residuato bellico che potesse rappresentare un reale pericolo per noi ragazzi. Paolino aveva raccontato tutto a casa e la mamma, zia Maria Teresa, aveva immediatamente capito che doveva impedire al figlio di ritornare a visitare l’aereo distrutto.

Intanto fra noi ragazzi erano cominciate a circolare storie fantasiose: dalla carcassa dell’aereo si potevano prendere paracadute interi o stracciati, carte topografiche,brandelli di pelle da utilizzare per le fionde, pezzi di vetro di carlinga con i quali si potevano costruire anelli, posate o altri souvenir di varia natura come avevamo visto fare ai militari durante le loro ore di riposo; quelli che ritenevano di essere più fortunati degli altri avevano già raccontato di aver trovato delle munizioni che potevano costituire la base per nuovi giochi. Che certamente nascondevano anche insidie e pericoli gravi che noi ragazzi non riuscivamo a percepire: come novelli Ulisse, noi volevamo scoprire cose nuove, anche rischiando di patire conseguenze imprevedibili. La mamma di Paolino, molto preoccupata dal racconto del figlio e dalla sua irrefrenabile curiosità, utilizzando la grande paura e il buon senso delle mamme, tolse gli abiti al figlio per impedirgli di uscire per strada in un suo momento di distrazione. Quella sera tutto filò tranquillo. Paolino dovette rassegnarsi a trascorrere la serata in casa, in mutandine, cercando di colpire col tiralastico qualche uccellino che aveva la ventura di posarsi sull’albero di fico del cortile. Qualche amico, però, parlandogli dalla strada lo incuriosiva e lo invogliava ad aggirare in qualche modo la segregazione forzata; gli raccontava che Silvio, Piero, Angelo, Tommaso erano stati nel luogo del disastro aereo e avevano ricuperato bei pezzi dal velivolo precipitato, persino qualche cartuccia di mitraglia che poteva servire a inventare dei fuochi d’artifizio mai visti prima. Questo colloquio attraverso le grate della finestra che dava sulla strada aveva eccitato la fantasia di Paolino che non vedeva l’ora di fare anche lui un nuovo personale sovralluogo nel sito dell’incidente aereo e di verificare di persona l’efficacia delle munizioni trovate.

Per quel giorno Paolino si dovette rassegnare ad andare a letto senza uscire di casa. L’indomani, di buon mattino, Paolino era già sveglio. Ma la madre ricordando quel che era capitato il giorno prima e soprattutto preoccupata che Paolino si lasciasse “travolgere” dalla curiosità, affidò al figlio una commissione diversiva che lo occupasse per qualche ora.

-”Paolino-gli disse la madre-vai dal macellaio a far la fila perché più tardi verrà tua zia a comprare la carne”. La commissione durò solo pochi minuti perché il macellaio non era ancora arrivato dal mattatoio e la macelleria era ancora chiusa. Tutto da rifare. Zia Maria Teresa raccomandò ancora a Paolino di non allontanarsi da casa e lui effettivamente ubbidì. Ma un pensiero martellante gli assillava la mente. Andando dal macellaio e ritornando aveva visto un assembramento di compagni che, vociando, armeggiavano intorno a qualche cosa di misterioso,certamente qualche pezzo dell’aereo precipitato,che lui non vedeva l’ora di scoprire. Il desiderio di raggiungere il gruppetto di amici era ormai irresistibile.

E infatti,piano piano,studiando attentamente i movimenti della madre, prima uscì da casa e poi, passo dopo passo, raggiunse il gruppetto degli amici che erano già a buon punto nel “lavoro” di smontaggio di una cartuccia di mitraglia inesplosa che era caduta durante lo scontro aereo del giorno prima. Tommaso, che era il più anziano di tutto il gruppetto,dopo aver rastrellato un po’ del materiale dell’aereo disperso in un vasto raggio di campagna, seduto sul gradino d’ingresso della casa,aveva cominciato l’opera di demolizione ma il lavoro non appariva tanto facile: occorrevano più mani per poter ricavare il maggior numero di pezzi riutilizzabili. Altri due dei fratelli di Tommaso, Silvio e Piero, guardavano incuriositi il lavorio del fratello maggiore che si ingegnava in tutti i modi a smontare quei giocattoli di morte. Intanto Paolino aveva raggiunto il gruppetto proprio nel momento in cui occorreva una mano per tenere dritta la cartuccia che Tommaso non riusciva a gestire compiutamente.

-”Paolì, mantieni la cartuccia”. Paolino non avrebbe mai pensato che potesse spettare proprio a lui “l’onore” di partecipare attivamente a un “gioco” così importante. Che durò solo un attimo.

Perché la martellata di Tommaso contro il chiodo puntato sul detonatore provocò una grandissima esplosione . E poi fu buio per tutti. Il padre e la madre di Tommaso, che erano nella stanza accanto,accorsero d’istinto, gridarono disperati chiedendo aiuto; i corpi dei ragazzi presenti erano tutti imbrattati di sangue, non si sapeva di chi, ma c’era tanto sangue dappertutto. Immediatamente fu un accorrere di gente che voleva fare qualche cosa ma non sapeva che cosa tanta era la confusione e la paura che si erano create. Paolino, che sembrava aver riportato i danni maggiori, giaceva lì svenuto. Ma anche Tommaso, Silvio, Piero in stato confusionale ricoperti di sangue erano stati catapultati a qualche metro di distanza dal gioco-bomba. Qualcuno si attivò a caricare il corpo dilaniato di Paolino su un carretto che passava e trasportarlo all’ambulatorio del medico. Zia Maria Teresa che aveva sentito lo scoppio e visto il grande trambusto che si era creato intorno cercò immediatamente il figlio: Paolino era scomparso. Col cuore in agitazione per un brutto presentimento che le aveva attraversato più volte la mente, uscì di casa per sapere e immediatamente ebbe una tragica conferma quando dai capannelli che si erano formati cominciò a sentire un nome:”Paolino, Paolino, Paolino è ferito”- “Ma ci sono altri feriti!” – “Chi sono gli altri feriti?”- E così un incalzare di domande sempre più stringenti e angoscianti intercalate da un pianto disperato e impotente. “Dov’è mio figlio? Chi l’ha visto? Com’era? Dove lo hanno portato?” Il medico non era attrezzato a fronteggiare situazioni così traumatiche: ripulì con alcool il sangue della mano sinistra spappolata, tolse le tante schegge che gli si erano conficcate in varie altre parti del corpo e poi fasciò tutto con lunghe bende in attesa di un ulteriore intervento ricostruttivo.

Cominciò per Paolino una vita diversa: la mano sinistra amputata delle dita era ridotta a un grumo che da quel momento gli avrebbe impedito di operare agevolmente con entrambe le mani. Il resto dell’estate la trascorse mezzo fasciato,seduto sui gradini di casa, docile e ubbidiente alle indicazioni della mamma che con pazienza e amore gli ripuliva e fasciava tutti i giorni le ferite che tardavano a rimarginarsi. Intanto – anche se noi non sapevamo quasi niente erano accaduti dei fatti politico-militari così rilevanti che sarebbe stata stravolta la vita della nazione e conseguentemente anche la vita delle nostre famiglie e di ciascuno di noi.

Nella notte fra il 24 e 25 Luglio 1943 il Gran Consiglio del PNF aveva votato la sfiducia a Mussolini che immediatamente venne fatto arrestare per disposizione del Re Vittorio Emanuele III. Il Re affidò l’incarico di capo del Governo al Maresciallo Pietro Badoglio. Il quale dopo aver condotto trattative segrete con gli Alleati angloamericani,” riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria” costituita dall’alleanza anglo-russo-americana,aveva chiesto l’armistizio che venne reso pubblico l’8 settembre 1943. In paese la notizia venne diffusa, con la solita enfasi, dalla radio del Corso e a noi ragazzi venne spiegato che la guerra era finita. In effetti accadde che il Re e il Governo fuggirono nell’Italia Meridionale già liberata dagli Alleati e quell’episodio che a noi venne presentato come la fine della guerra, fuori dalla Sardegna, nel resto d’Italia, divenne una furibonda e sanguinosa guerra di resistenza alle truppe Tedesche già nostre alleate- che ritirandosi verso il Nord distruggevano e uccidevano senza pietà e discriminazione alcuna.

Il 1°Ottobre del 1943 l’anno scolastico non iniziò né per Paolino né per tutti gli altri bambini: la scuola rimase chiusa. All’inizio fummo contenti delle vacanze prolungate poi, però, a mano a mano che passavano i giorni assolati dell’autunno e arrivavano le prime piogge cominciammo a sentire dentro di noi una sorta di tristezza e con essa anche un inspiegabile desiderio di ritornare a scuola.

Non vedemmo “tiu Giuanne su bidellu” agitare il suo bastone, aspettammo invano la maestra alta alta, non incontrammo Giuseppe, Lino, Giovanni, Pasquale, Paolino che avevano saputo anche loro dell’imprevisto contrordine: avremmo continuato le vacanze chissà per quanto altro tempo. La scuola era stata trasformata in ospedale militare. Anche noi cominciavamo a patire gli effetti della guerra in maniera sempre più pesante: la mancanza di viveri, di abbigliamento, le ferite dei compagni rimasti mutilati dagli ordigni militari usati come giochi, e adesso anche la chiusura delle scuole.


Meriggio – Poesia di G.B.


Nelle ore calde del meriggio

mi ritrovo sulla scogliera

ad ascoltare il mare

rapito dal fluire delle ode

che cantano come il tuo sorriso.

Rivedo

i tuoi occhi splendenti,

fuochi notturni che brillano

come stelle nel firmamento.

Rivedo

il tuo incedere flessuoso

e mi riempie di emozioni,

che assaporo lentamente

come sabbia nella clessidra.

Rivedo

la mia seconda giovinezza

che trova il tuo braccio

e corre insieme su sentieri scoscesi.

 E Sento

che con te riacquisto la serenità

dei giorni passati

e faccio pace  con me stesso

felice nella realtà che mi circonda.

g.b.


Cronaca di una battagliola con le formiche 26-02-2021 – Testo di Franco Simula


Era da tanto che non scendevo in giardino . L’occasione mi fu offerta casualmente dalla necessità di dover assistere l’autista che guida la macchina per il rifornimento periodico del gasolio per il riscaldamento.

Concluse le operazioni, in mezzo all’erba già cresciuta, l’erba della primavera ormai alle porte, vidi per terra, mezzo sepolti nel verde, dei bei mandarini che il vento dei giorni scorsi aveva stracciato dai rami con violenza ne raccolsi alcuni in una ciotola senza curare di verificare la loro integrità.
Dopo un controllo più accurato notai che le forti folate di vento avevano sbattuto violentemente per terra i mandarini e ne avevano squarciato le bucce. Naturalmente io volevo gustare i mandarini del giardino, quest’inverno non li avevo ancora assaggiati, provai a sbucciane qualcuno e con grande sorpresa li trovai invasi di formichine che, attraverso gli squarci nelle bucce, avevano trovato un varco comodo per insediarsi all’interno sicure di trovare vitto e alloggio gratis a portata di bocca. La mia reazione istintiva fu quella di schiacciarne una, due: .dio ne scampi! Fu un istantaneo passa-parola fra i piccoli insetti che cominciarono, quasi impazziti, a cercare le più svariate vie di fuga. Le formichine che si trovavano raggruppate per “famiglie” in punti diversi, si sparpagliarono immediatamente sul tavolo dove avevo deposto i mandarini facendomi presagire una possibile invasione per tutta la casa. In fretta e furia spostai i mandarini dentro un lavandino per poter dominare meglio l’invasione ma il risultato non migliorò di molto: le formiche continuavano a scappare dappertutto, disperate, alla ricerca di una via di fuga liberatrice . Cercavano di aggrapparsi alle pareti lisce del lavandino ma inesorabilmente scivolavano giù e quindi dovevano ritentare la risalita, più e più volte, ma sempre con lo stesso risultato. Un supplizio di Tantalo adattato alle formiche. L’idea di schiacciare le formichine non mi stava più bene, mi sembrava una soluzione facilona e poco dignitosa, allora pensai di aprire il rubinetto dell’acqua in modo da poterle convogliare nel canale di scolo e farle scomparire. Ma in questo modo – pensai – non è che evito di ucciderle ma addirittura finisco col praticare un’ecatombe di formichine colpevoli soltanto di esser penetrate incautamente dentro una possibile nuova abitazione provvista di tutti i confort. Tuttavia non mi sentivo responsabile di tanta malvagità perché – pensai – costruiscono le loro tane sotto terra, al buio, dove addirittura raccolgono le provviste, quindi se io le faccio scivolare attraverso un canale di scolo non solo gli risparmio una morte violenta e immeritata ma fornisco loro una inaspettata riserva di acqua che in certi periodi di siccità può anche far comodo e inoltre le rituffo al buio, sotto terra, in un habitat che già conoscono.
La storia iniziata in maniera violenta finisce con un sostanziale armistizio: loro cercando di adottare una sorta di resilienza (che in tempi di corona virus non fa male neppure alle formiche) ed io cercando di ricuperare qualche spicchio residuo di mandarino da gustare. Che, a dirla tutta, potevo cogliere comodamente dall’albero a portata di mano: invece no, mi ero impuntato ostinatamente a voler assaggiare uno, due spicchi dei mandarini trascurati dalle formiche per confrontarli con quelli che alla fine colsi dall’albero. Le formiche avevano scelto meglio: erano più dolci.
( f.s.)


Tempo di ….iniezioni – Testo di Egle Farris

Si esercitava su qualche vecchia mela, che poi mangiava comunque perchè sapeva che non ne avrebbe avuta un’altra . Lei diceva di no ma lo sapevano tutti e sorridevano con imbarazzo quando  magnificava la sua preparazione ed esperienza nel settore infermieristico .

Si era inventata un lavoro,per sopravvivere , in tempi in cui le pensioni sociali erano latitanti e di  lavoro ce n’era meno di adesso . Un lavoro a causa del quale tutti  i bambini del paese la odiavano e sentire che   “tia Marì  ” con le nocche stava bussando alla porta era un rumore che aggrinciava volto e capelli .                             

Si presentava eternamente con uno stinto vestitino  felpato a fiorami , cui aggiungeva uno scialle di bouclè in inverno , e con due occhi così  intensamente  celesti da parere  bianchi , che già questo ti inquietava peggio che se avessi visto un alieno. E una centenaria borsa , di cartone pressato e tutta screpolata che , quando pioveva, veniva riparata contro il petto . Conteneva i ” ferri del mestiere”, ” temutissimi da tutti i bambini e non mi si venga a dire che per gli adulti non fosse lo stesso .                                                                                                                       

Perchè tia Maria di mestiere girava per il paese praticando iniezioni . Zanzarina la chiamavano e mai nome fu meno appropriato, perchè, al suo confronto, chiunque praticasse un’iniezione  , un dilettante era stato . Piano piano , apriva la vetusta borsa sul tavolo, tirava fuori il bollitore d’alluminio , quelli d’acciaio sarebbero arrivati dopo , con un manico rovesciabile per aprirne il coperchio , e ai malcapitati si presentava una siringa giallognola di vetro spesso un dito ed un ago spuntato che più che ago era un residuato della prima guerra mondiale , una baionetta  in pratica.

Solo a questa vista immaginavi sciagurate conseguenze sul tuo bel giovane sederino . Perchè quelli erano i tempi post-bellici , quando il rachitismo e l’anemia la facevano da padrone . Quando si pensava che i famosi ” estratti epatici ” rosso sangue dentro una fiala da 5 cc ti avrebbero raddrizzato le gambe ed aumentato i globuli rossi . Che poi io capivo che erano estratti simpatici e non comprendevo come mai potessero esserlo  .  E cercavi di scappare, di nasconderti in soffitta, sotto un letto o dentro uno di quegli enormi armadi ma , loro , ti trovavano sempre ,come cacciatori sulle tracce della preda .                                                                                         

Piangente e tremebonda imploravi un fazzoletto da stringere fra i denti e vedevi intanto quelle mani aggrinzite che brandivano l’arma letale . Anche quel piccolo batuffolo  di cotone con un goccio di alcool ,era già un tormento  .

Il  trauma e l’urlo che seguiva la puntura mi risuonano ancora qui e quella siringa ci metteva un’eternita a svuotarsi e mi rivedo, dopo , a saltellare per tutta la camera gridando contro la malefica . E dopo un centinaio di salti e una caramella i lacrimoni finivano e per il giorno era andata ,sino all’indomani ,quando la  “majalza ”  rifaceva il suo consueto giro ,stringendo al fianco quella malefica borsa .  Chissà quante volte quegli arnesi non erano stati disinfettati o sterilizzati , chissà per quale oscuro ed incomprensibile motivo venivo sottoposta a quella sevizia .   Perchè di pura sevizia si trattava  , roba da telefono azzurro .      Ma allora vuoi mettere ,  in quei poveri tempi  ,pensare che tua figlia stava faceva una cura di estratti epatici ( o simpatici?) per combattere l’anemia allora imperante e raddrizzare le gambe  …….     E io  comunque pensavo che  mai ero stata anemica e  le gambe manco  una virgola storte  , dritte come un fuso  le avevo sempre avute….

Una signora col rossetto                                                                Egle Farris