1° Ottobre 1942, primo giorno di scuola. Una di quelle calde giornate di inizio autunno che ti fanno sognare ancora giochi fantastici nelle strade e nelle piazze di paese ancora occupate da lenzuoli ricoperti di uva, fichi, sorbe, posti a seccare prima di diventare regalo desiderato nelle “cerche” per i morti; noi ragazzi di prima elementare– ancora tutti spaesati- dovevamo andare a rinchiuderci a scuola.
Eravamo in 36 in quella prima classe guidata da una maestra alta alta, per noi bambini piccoli piccoli e frastornati. Nell’atrio della scuola nessuno sapeva che fare, nessuno sapeva dove andare anche perché eravamo controllati e minacciati a vista da “tiu Giuanne su bidellu” che pur avendo una protesi di legno alla gamba destra, ci teneva tutti a bada con una voce minacciosa che ci metteva paura, brandendo di lontano il suo nodoso bastone peraltro mai usato.
Anche Paolino, che abitava vicino a una delle piazze del paese più frequentate da noi ragazzi, aveva risposto “presente” con allegria all’appello della maestra, mostrando tutta la vivacità che un bambino di sei anni sa sprigionare.
L’appello si era concluso senza i problemi che, a nostra insaputa, avevano colpito alcuni nostri coetanei che, in altre parti d’Italia, erano stati allontanati dalla scuola o danneggiati dalle leggi razziali emanate dal governo fascista sin dal 1938 . Noi non sapevamo niente di tutte queste cose che capitavano a molti chilometri dalla periferia del nostro paese.
Così come non sapevamo che nel 1939 la Germania aveva invaso la Polonia e che alle proteste formali di Inghilterra e Francia la Germania aveva reagito invadendo quest’ultima e addirittura occupando Parigi. I travolgenti successi nazisti avevano spinto Mussolini ad allearsi con Hitler e a entrare in guerra contro Francia e Inghilterra per non rimanere escluso dai possibili vantaggi di una vittoria ormai ritenuta imminente.
Dopo un esordio abbastanza favorevole, l’impresa militare italiana contro i paesi alleati da qualche tempo cominciava a registrare qualche insuccesso. Le brillanti e inarrestabili operazioni della prima sorprendente fase di guerra che sembravano dover assegnare una vittoria repentina all’esercito tedesco, col quale il Governo italiano aveva stretto un’alleanza, erano state riequilibrate da una inevitabile azione di resistenza che andava gradualmente organizzandosi in varie parti d’Europa. Nonostante la disfatta subita in Grecia, la sconfitta patita fra le dune del deserto ad El-Alamein e la penosa odissea dei soldati italiani in Russia, la propaganda fascista continuava a prospettare come vicinissima ormai la fine della guerra con una scontata vittoria della Germania e dell’Italia.
In questa Italia ormai già concretamente provata dalla mancanza di viveri e di altri beni di prima necessità che scarseggiavano sempre di più, nell’anno scolastico 1942-43 noi bambini di sei anni fummo chiamati a frequentare la prima classe elementare. Si, fummo chiamati; come i militari alla guerra. Perché la cultura, e più specificamente la cultura fascista, faceva parte di quel complesso di doveri civici che il cittadino fascista sin da bambino doveva imparare ad osservare.
Ma queste cose noi non le sapevamo; erano troppo grandi per noi e forse troppo grandi anche per le nostre maestre che non ci parlavano assolutamente di leggi razziali o di guerra; tutt’al più le maestre chiedevano agli alunni se qualcuna delle loro mamme aveva delle uova o dell’olio da vendere: la guerra faceva sentire i suoi effetti anche nei nostri paesi ma soprattutto in città da dove le nostre insegnanti provenivano.
A scuola avevamo cominciato a fare le aste e i cerchietti.
Giuseppe era molto bravo, era capace di allineare le aste-tutte dritte- con una precisione che solo un bambino esperto, attento ed intelligente sapeva fare; Lino, un po’ svogliato, riusciva a riempire solo mezza paginetta in una mattinata; Paolino qualche giorno lavorava di buona lena, qualche altro giorno si lasciava prendere dalla malinconia, faceva poche aste e pochi cerchietti e poi si sbizzarriva a disegnare tante case e tanti soli: le case illuminate da soli grandi grandi lo affascinavano in maniera irresistibile. Ma la maestra lo richiamava alla composizione di aste e cerchietti che erano la base delle future letterine dell’alfabeto: e Paolino obbediva docilmente e ricominciava a tracciare aste e a comporre cerchietti il più rotondi possibile. Pasquale invece non ne azzeccava proprio una: le sue aste erano tutte storte, sembrava che le indicazioni impartite dalla maestra producessero risultati completamente opposti, anche i cerchietti sembravano corallini dalle forme più svariate messi insieme per formare strani mosaici di cui solo lui conosceva l’arcana ispirazione e il misterioso significato perché un significato ce l’avevano. Giovanni si presentava un po’ timido e indifeso,introverso e di poche parole anche perché di parole diverse dalla lingua sarda ne conosceva proprio poche.
Noi non sapevamo, ma la guerra continuava con le sue distruzioni e le sue stragi; i tedeschi -sostenuti dagli alleati italiani-stavano conseguendo significativi successi nella loro “campagna di Russia”: dopo un’avanzata non priva di ostacoli ma comunque inarrestabile arrivarono alle porte di Stalingrado e si apprestavano già a occuparla quando i sovietici opposero una disperata e lunga ma valorosa resistenza.
La maestra, a ottobre inoltrato,cominciò a farci scrivere le prime letterine dell’alfabeto: dopo l’esercizio prolungato con aste e cerchietti, non era possibile rimandare all’infinito le esercitazioni sulle lettere dell’alfabeto e anche se il lavoro diventava sempre più difficile occorreva imparare a ricopiare dalla lavagna ciò che la maestra di giorno in giorno ci proponeva: prima le vocali e poi ad una ad una le consonanti dalle più semplici alle più difficili come se per noi bambini esistessero consonanti più facili e la trascrizione di quelle letterine non fosse sempre una fatica improba. Non tutti gli alunni riuscivamo a imparare negli stessi tempi: c’era chi aveva già imparato a scrivere tutte le letterine e chi ancora annaspava con fatica fra aste e cerchietti.
Intanto si instauravano le prime amicizie non più solo con i compagni di strada ma anche con ragazzi che provenivano dalle parti più lontane del paese. Un giorno due squadre di ragazzi decidemmo di incontrarci in Piazza Tola (era la piazza dove si svolgeva il mercatino del martedì che già da allora era sistemata con mattonelle quadrate) per sfidarci a Italia-Francia, un gioco che praticavamo con molta frequenza da bambini. Non occorrevano attrezzi particolari:bastavano buone gambe e grande agilità nella corsa. Si divideva la piazza in due parti uguali usando la pipì per fare la linea di demarcazione. Il gioco era semplice:si formavano due squadre ciascuna con una bandiera che veniva fissata nella parte più lontana dalla linea mediana e i ragazzi delle due squadre avversarie vincevano se riuscivano a prendere la bandiera della squadra nemica e riportarla nel proprio campo. Se nell’azione di conquista della bandiera avversaria si veniva acchiappati da un ragazzo dell’altra squadra si rimaneva prigionieri sino a quando non arrivava la liberazione da un compagno della propria squadra.
La sera imbruniva troppo presto e il pensiero correva immediatamente alla scuola. O meglio: alle aste, ai cerchietti,alle letterine dell’alfabeto ai numeri. Mai che le maestre ci parlassero della guerra. Se non nei termini che la propaganda del regime imponeva. E cioè informandoci in maniera molto superficiale e approssimativa sulle azioni di guerra che andavano bene per l’Italia e soprattutto sul valore degli italiani che si stavano comportando da eroi. Eppure gli effetti di questo doloroso evento che interessava tutti direttamente o indirettamente li pativamo anche noi bambini, perché tutti ci rendevamo conto di persona che scarseggiavano i viveri, che molti dei nostri padri o dei nostri zii erano partiti per la guerra. Improvvisamente un giorno cominciammo a sentire l’urlo delle sirene:prima con cadenza sporadica ma col passare delle settimane sempre con maggior frequenza. Il suono particolare delle sirene veniva diffuso da più altoparlanti sistemati in punti strategici del paese: per i militari significava che dovevano correre alle armi, per i civili la sirena era il segnale che suggeriva di raggiungere velocemente il rifugio più vicino:spesso ci si rannicchiava negli scantinati nella convinzione che sotto il livello della strada la sicurezza fosse maggiore. Ogni volta sentivamo un tuffo al cuore per la paura che capitasse la cosa più banale e verosimile: e cioè che le bombe degli aerei rombanti nel cielo distruggessero le nostre case; erano soprattutto le angosce dei nostri genitori a trasferire su di noi paure che la nostra età dell’incoscienza non ci avrebbe mai fatto provare.
Noi faticavamo nell’apprendere lettere e numeri mentre alcuni nostri compaesani chiamati alle armi subivano una cocente disfatta fra le dune del deserto a El-Alamein. Qualcuno dei compagni di scuola riferiva episodi di guerra raccontati nelle lettere provenienti dai campi di battaglia. Un giorno Giovanni ci raccontò -molto scosso e parlando in sardo per non perdere il filo del discorso- che un suo zio era stato ferito a una gamba, in maniera non grave, proprio nella sanguinosa battaglia di El-Alamein, ci disse inoltre che forse lo avrebbero rimandato a casa per un periodo di convalescenza.
Anche in Russia le azioni militari non andavano più tanto bene e stavolta le notizie di prima mano ci vennero date dalla maestra: ci raccontò che un suo cugino partito per la Russia aveva avuto un piede congelato e che non sapeva se sarebbe riuscito a ricuperarlo:era molto probabile un’amputazione dell’arto. Questa notizia la maestra l’aveva appresa dal cappellano militare che l’aveva riferita al parroco del paese. I soldati infatti non potevano raccontare direttamente ai familiari episodi che in qualche modo mettessero in cattiva luce l’operato del Regime. Stavolta, e finalmente, la scuola si era tolta di dosso l’orpello della propaganda e aveva raccontato un brandello di verità sui tragici fatti che stavano avviluppando l’Italia,l’Europa e il mondo intero.
Ma noi avevamo la nostra piccola grande missione da compiere: imparare a leggere, scrivere e far di conto. Anche perché se la guerra fosse continuata avremmo dovuto leggere le lettere dal fronte alle vecchie nonne analfabete desiderose di conoscere le notizie dei loro figli in guerra.
Una mattina la maestra ci annunciò che entro qualche giorno avremmo dovuto “ritirare” le divise di “Figli della lupa” per partecipare a una manifestazione in piazza Umberto. Il 4 Novembre,anniversario della vittoria,alla presenza delle autorità più rappresentative del paese il Podestà,il Segretario del PNF, il Direttore Didattico, il Maresciallo,si tenne una parata solenne come non avevamo mai visto nel paese; assomigliava molto a una delle tante esercitazioni militari che regolarmente si svolgevano nella stessa piazza: ci allinearono in fila per cinque,ci fecero marciare come maldestramente riuscivamo a fare e poi – dopo aver risposto ai discorsi del podestà col saluto fascista- ci lasciarono liberi di muoverci autonomamente. Ma le nostre reazioni furono le più strane: chi correva agitando il pomponcino che pendeva dal berretto,chi piangeva “perduto” in mezzo alla folla cercando la propria madre, chi si agitava e gridava impazzito dalla gioia,chi era rimasto impietrito in mezzo alla piazza in attesa di qualcuno che lo riportasse a scuola. La maestra si era attardata a conversare con le autorità e a programmare future manifestazioni. Poi, ci radunò al centro della piazza e in fila per due, ci fece rientrare a scuola.
Verso Natale i ragazzi che avevano dimostrato più propensione alla proposta della scuola cominciavano già a ricopiare e comporre le prime sillabe mentre ancora parecchi compagni facevano fatica con aste e cerchietti o con le letterine da ripetere per pagine intere.
Si profilavano ormai due o tre gruppi di abilità differenziate riuniti in un’unica classe. D’altronde era un fenomeno inevitabile dal momento che le provenienze degli alunni erano le più differenti:
c’erano bambini provenienti da famiglie povere e deprivate che non avevano avuto l’opportunità di esercitare in nessun modo una manualità fine, preliminare all’uso della matita prima e in seguito della penna . C’erano invece degli alunni i cui genitori erano più “acculturati” o più coscienti dell’importanza della scuola, avevano già insegnato ai propri figli a impugnare correttamente una matita e a tracciare le prime aste. Non bisogna dimenticare infatti che per i primi tre o quattro mesi di scuola per la scrittura di aste e lettere si faceva uso esclusivo della matita per esercitare la mano (solo la destra naturalmente: i mancini dovevano seguire una rigorosa autocensura) prima di passare all’uso della penna con l’inchiostro che spesso era la causa di macchie involontarie e scarabocchi legati all’inesperienza ma che tuttavia non ci impedivano di prendere le punizioni previste per i distratti e i pasticcioni.
Alle fatiche della scuola noi ragazzi cercavamo di alternare i giochi più frequenti della nostra fanciullezza: i cavallini di canna sui quali ci sbizzarrivamo in corse sfrenate, i carri a buoi costruiti con le pannocchie sgranate del granoturco che erano belle e vincenti se apparivano riccamente ornate di ninnoli e pagliuzze colorate, i pifferi ricavati dalle canne che emettevano suoni differenti l’uno dall’altro a seconda delle dimensioni,le trottole di legno che erano ben fatte se ruotavano a lungo e silenziosamente su se stesse (“sa morrocula est lebia”) senza spostarsi traballando scompostamente . C’erano due o tre artigiani del legno che avevano coltivato uno spirito ludico particolare ed erano molto bravi a lavorare al tornio queste opere d’arte-giocattolo.
Privilegiato su tutti rimaneva comunque il gioco del calcio. I militari avevano formato una squadra di calcio per ogni battaglione e quindi tutte le domeniche due squadre di calcio militari disputavano una partita nel modesto campo sportivo comunale. Avevamo imparato i nomi dei più famosi militari-calciatori e li avevamo assegnati ai più bravi dei ragazzi-giocatori: Antonio si chiamava Cisotto, Giuseppe si chiamava Rodari, Giommaria si chiamava Lotronto, Salvatore si chiamava Bovoli e così anche noi avevamo formato le nostre squadrette di calcio che si divertivano a giocare non con palloni di pelle o di gomma ma con palle ricavate utilizzando vecchie calze imbottite di stracci. Il gioco con questo tipo di palla per quanto coinvolgente era anche pericoloso perché dovevamo giocare rigorosamente scalzi (non tutti possedevano le scarpe) e , nel calciare, ci si esponeva non di rado a colpire con l’alluce il pavimento della piazza e l’unghia si distaccava dalla carne procurandoci un dolore all’inizio insopportabile: nessuno – però – si azzardava a piangere, si cercava di metterci riparo applicando alla ferita un po’ della nostra stessa pipì come i compagni più grandetti e più esperti ci avevano insegnato a fare.
Per un po’ si rimaneva a bordo piazza e poi si riprendeva a giocare cercando di calciare col piede sano. A casa non bisognava dire niente del “piccolo” incidente perché altrimenti al dolore patito si aggiungevano le punizioni familiari.
Alla fine di Marzo, poco prima delle vacanze pasquali, la maestra ci fece fare il primo dettato: si trattava di verificare se riuscivamo a scrivere delle parole di senso compiuto che la maestra scandiva abbastanza lentamente. Naturalmente non tutti riuscirono a fare per benino questo lavoro non facile: la maestra fu quindi costretta a dividerci per fasce di livello e farci eseguire dei lavori differenziati a seconda delle abilità e delle conoscenze raggiunte. Si procedette nello stesso modo anche per l’apprendimento delle operazioni aritmetiche più semplici, l’addizione e la sottrazione: ad alcuni piaceva particolarmente maneggiare i numeri e verificare – come avviene con le palline- che aggiungendo lo stesso numero a un numero base si otteneva il doppio: la cosa era persino divertente e poi i numeri sono solo dieci, quindi tutto sembrava più facile.
Intanto i battaglioni tedeschi in Russia, dopo i primi successi, cominciarono a registrare una sconfitta dietro l’altra sino a subire una disfatta totale: l’inverno russo aveva dato una mano al proprio esercito e come aveva interrotto la marcia alle truppe napoleoniche aveva arrestato anche l’esercito tedesco costretto ad arrendersi dopo la sanguinosa battaglia di Stalingrado. La notizia del tracollo tedesco si diffuse immediatamente per il mondo e anche in Italia i partiti contrari al regime rinnovarono il patto unitario antifascista mentre nelle grandi fabbriche del Nord venivano promossi una serie di grandi scioperi rigorosamente vietati dalle leggi fasciste sul lavoro. Dovunque si diffondevano fermenti di ribellione contro l’oppressione nazi-fascista. In Polonia gli ebrei del ghetto che avevano subìto sino ad allora una durissima repressione con grandi perdite di vite umane, si ribellarono ai nazisti che ancora opprimevano gli ebrei di Varsavia.
Nel nostro paese come ogni anno,si rinnovavano i riti della Pasqua: – sos sepuschos, s’iscravamentu,sa pruzzessione ‘e sos giudeos, sa missa ‘e gloria, su lunis de pascha -.E finalmente anche per noi bambini la carne d’agnello per il pranzo “de Pascha ‘e Abrile”,il pane fresco arricchito con mille ricami, “su cozzulu ‘e s’ou”, sas tiriccas, sas casadinas, e tanti frutti secchi conservati nei cassettoni avevano fatto la loro “miracolosa” comparsa nelle tavole pasquali.
Arrivata la primavera noi ragazzini potevamo trattenerci più a lungo per le piazze a giocare a Italia-Francia o a “pallone”; non di rado ci riunivamo in gruppi e andavamo per le campagne vicine a cercare “pabanzolu” o i nidi degli uccellini che ormai cominciavano a nascere: l’abilità di noi bambini consisteva nel sottrarli al loro ambiente naturale che era il loro nido e farli crescere in casa in un ambiente del tutto alieno alla loro natura: il tentativo finiva miseramente dopo pochi giorni. Le cose andavano meglio quando si riusciva a prendere qualche uccello di dimensioni più grandi, una gazza, un’upupa, una cornacchia: allora l’allevamento artificiale durava anche qualche settimana.
Con l’arrivo della bella stagione l’urlo delle sirene era diventato sempre più frequente e asfissiante anche se ormai ci avevamo fatto l’abitudine. Non poche famiglie, però, avevano preso la drastica decisione di “sfollare” in campagna nella convinzione che lì potessero corrersi meno pericoli. In campagna, però, mancavano le comodità più elementari e indispensabili e allora dopo qualche giorno decidevano di affidarsi all’ineluttabilità del destino o alla protezione della Madonna e decidevano di rientrare nelle proprie case.
L’anno scolastico volgeva ormai al termine, fra un po’ avremmo conosciuto l’esito delle nostre fatiche e promossi o bocciati ci saremmo potuti dedicare a tempo pieno ai nostri giochi in piazza e alle nostre avventure in campagna. Qualcuno dei compagni avrebbe continuato ad aiutare i propri genitori nei lavori dei campi come aveva fatto saltuariamente durante tutto l’anno scolastico: infatti noi non riuscivamo a capire perché ogni tanto Pasquale si assentava da scuola, le sue assenze coincidevano con i periodi di maggior lavoro nella campagna.
Alla fine dell’anno non tutti fummo promossi: Giuseppe era stato promosso con votazione brillante, Paolino era stato promosso a frequentare la seconda classe, Lino era stato pure lui promosso anche se con qualche difficoltà,Giovanni promosso, Pasquale, rimandato,avrebbe dovuto ripetere la prima classe nella speranza di fare meglio in futuro.
Per la maggior parte di noi erano iniziate le vacanze: le giornate erano diventate più lunghe finalmente avremmo potuto riprendere i nostri giochi in Piazza Tola, saremmo ritornati a cercare nidi a tempo pieno, avremmo continuato a vivere le nostre avventure nelle campagne più vicine al paese. Naturalmente eravamo ignari di quel che stava accadendo lontano dai nostri giochi nei teatri della guerra che si stava combattendo in vari punti del mondo.
In Italia il 10 Luglio le truppe alleate (americane,inglesi,canadesi) sbarcarono in Sicilia,occuparono l’isola dando avvio alla campagna d’Italia. Come ho già detto noi ragazzi non avevamo la percezione esatta di quelli che erano gli effetti della guerra se non per la penuria dei viveri e dell’abbigliamento e per le sporadiche e frammentarie notizie che sentivamo dagli adulti.
Qualcosa però sembrava esser cambiata anche per noi bambini: sentivamo sempre più spesso l’urlo delle sirene che ci informavano di possibili imminenti pericoli: immediatamente noi ragazzi scomparivamo dalle strade e andavamo a nasconderci nei rifugi che ciascuna famiglia si era procurato. Quasi sempre tutto finiva col passaggio sui nostri cieli di uno o più bombardieri che dopo averci spaventato proseguivano la loro marcia andando a scaricare altrove il loro carico di morte. Tante volte avevamo assistito a questi scenari al punto che ormai ci si era abituati ad entrare e uscire dai rifugi come se giocassimo a nascondino.
Un giorno però, verso le dieci del mattino, capitò qualche cosa di diverso, di mai visto, che attirò immediatamente l’attenzione di noi ragazzi: sentimmo di lontano un crepitare di mitragliatrici e un guizzare abbagliante di fulmini nel cielo assolato del 30 luglio: una battaglia furibonda fra aerei inglesi e tedeschi si era scatenata d’improvviso. Un aereo inglese ( lo sapemmo in seguito) aveva colpito con le sue mitragliatrici un aereo tedesco che era precipitato in fiamme lanciando nel cielo delle lingue di fuoco e un’improvvisa e densa scia di fumo. Per noi la guerra erano i militari ospitati nelle chiese sconsacrate di Monserrato e del Carmelo e in alcune case private,erano i soldati che passavano per il Corso intruppati per andare a fare esercitazioni al poligono di tiro ricavato in un angolo del vecchio campo sportivo, era il comunicato che la radio collocata in una casa del Corso (“in su Bigliasdhu”) tutte le sere diffondeva con la voce gracchiante e carica di enfasi della radio del regime.
Quel giorno però ci prese una strana eccitazione , volevamo andare quanto prima a vedere l’aereo precipitato ma soprattutto volevamo andare a vedere un aereo da vicino. E in effetti il passa parola tra ragazzi durò pochissimo: nel giro di mezz’ora centinaia di bambini – compresi Tommaso, Silvio, Paolino – ci eravamo radunati nelle vicinanze dell’aereo precipitato. Non potevamo avvicinarci, come avremmo voluto, perché una cinta imponente di carabinieri e di militari dell’esercito impedivano a chiunque di avvicinarsi al relitto.
Per quel giorno ci bastò vedere di lontano dei rottami fumanti e un odore acre di qualcosa di insolito che non apparteneva agli odori che ci erano familiari come il fumo delle stoppie bruciate.
Apprendemmo più tardi che due dei piloti tedeschi erano morti e altri due erano rimasti gravemente feriti. Rimanemmo a lungo nel luogo dell’incidente cercando di interpretare tutti i movimenti che vedevamo di lontano, ma per quel giorno non fu possibile avvicinarci:ci saremmo ritornati l’indomani.
La notizia dell’accaduto si era propagata in un attimo per tutto il paese e già le nostre mamme avevano deciso di prendere contromisure adeguate per impedire che i propri figli, spinti dalla curiosità e dal desiderio di scoprire, rischiassero di raccogliere qualche residuato bellico che potesse rappresentare un reale pericolo per noi ragazzi. Paolino aveva raccontato tutto a casa e la mamma, zia Maria Teresa, aveva immediatamente capito che doveva impedire al figlio di ritornare a visitare l’aereo distrutto.
Intanto fra noi ragazzi erano cominciate a circolare storie fantasiose: dalla carcassa dell’aereo si potevano prendere paracadute interi o stracciati, carte topografiche,brandelli di pelle da utilizzare per le fionde, pezzi di vetro di carlinga con i quali si potevano costruire anelli, posate o altri souvenir di varia natura come avevamo visto fare ai militari durante le loro ore di riposo; quelli che ritenevano di essere più fortunati degli altri avevano già raccontato di aver trovato delle munizioni che potevano costituire la base per nuovi giochi. Che certamente nascondevano anche insidie e pericoli gravi che noi ragazzi non riuscivamo a percepire: come novelli Ulisse, noi volevamo scoprire cose nuove, anche rischiando di patire conseguenze imprevedibili. La mamma di Paolino, molto preoccupata dal racconto del figlio e dalla sua irrefrenabile curiosità, utilizzando la grande paura e il buon senso delle mamme, tolse gli abiti al figlio per impedirgli di uscire per strada in un suo momento di distrazione. Quella sera tutto filò tranquillo. Paolino dovette rassegnarsi a trascorrere la serata in casa, in mutandine, cercando di colpire col tiralastico qualche uccellino che aveva la ventura di posarsi sull’albero di fico del cortile. Qualche amico, però, parlandogli dalla strada lo incuriosiva e lo invogliava ad aggirare in qualche modo la segregazione forzata; gli raccontava che Silvio, Piero, Angelo, Tommaso erano stati nel luogo del disastro aereo e avevano ricuperato bei pezzi dal velivolo precipitato, persino qualche cartuccia di mitraglia che poteva servire a inventare dei fuochi d’artifizio mai visti prima. Questo colloquio attraverso le grate della finestra che dava sulla strada aveva eccitato la fantasia di Paolino che non vedeva l’ora di fare anche lui un nuovo personale sovralluogo nel sito dell’incidente aereo e di verificare di persona l’efficacia delle munizioni trovate.
Per quel giorno Paolino si dovette rassegnare ad andare a letto senza uscire di casa. L’indomani, di buon mattino, Paolino era già sveglio. Ma la madre ricordando quel che era capitato il giorno prima e soprattutto preoccupata che Paolino si lasciasse “travolgere” dalla curiosità, affidò al figlio una commissione diversiva che lo occupasse per qualche ora.
-”Paolino-gli disse la madre-vai dal macellaio a far la fila perché più tardi verrà tua zia a comprare la carne”. La commissione durò solo pochi minuti perché il macellaio non era ancora arrivato dal mattatoio e la macelleria era ancora chiusa. Tutto da rifare. Zia Maria Teresa raccomandò ancora a Paolino di non allontanarsi da casa e lui effettivamente ubbidì. Ma un pensiero martellante gli assillava la mente. Andando dal macellaio e ritornando aveva visto un assembramento di compagni che, vociando, armeggiavano intorno a qualche cosa di misterioso,certamente qualche pezzo dell’aereo precipitato,che lui non vedeva l’ora di scoprire. Il desiderio di raggiungere il gruppetto di amici era ormai irresistibile.
E infatti,piano piano,studiando attentamente i movimenti della madre, prima uscì da casa e poi, passo dopo passo, raggiunse il gruppetto degli amici che erano già a buon punto nel “lavoro” di smontaggio di una cartuccia di mitraglia inesplosa che era caduta durante lo scontro aereo del giorno prima. Tommaso, che era il più anziano di tutto il gruppetto,dopo aver rastrellato un po’ del materiale dell’aereo disperso in un vasto raggio di campagna, seduto sul gradino d’ingresso della casa,aveva cominciato l’opera di demolizione ma il lavoro non appariva tanto facile: occorrevano più mani per poter ricavare il maggior numero di pezzi riutilizzabili. Altri due dei fratelli di Tommaso, Silvio e Piero, guardavano incuriositi il lavorio del fratello maggiore che si ingegnava in tutti i modi a smontare quei giocattoli di morte. Intanto Paolino aveva raggiunto il gruppetto proprio nel momento in cui occorreva una mano per tenere dritta la cartuccia che Tommaso non riusciva a gestire compiutamente.
-”Paolì, mantieni la cartuccia”. Paolino non avrebbe mai pensato che potesse spettare proprio a lui “l’onore” di partecipare attivamente a un “gioco” così importante. Che durò solo un attimo.
Perché la martellata di Tommaso contro il chiodo puntato sul detonatore provocò una grandissima esplosione . E poi fu buio per tutti. Il padre e la madre di Tommaso, che erano nella stanza accanto,accorsero d’istinto, gridarono disperati chiedendo aiuto; i corpi dei ragazzi presenti erano tutti imbrattati di sangue, non si sapeva di chi, ma c’era tanto sangue dappertutto. Immediatamente fu un accorrere di gente che voleva fare qualche cosa ma non sapeva che cosa tanta era la confusione e la paura che si erano create. Paolino, che sembrava aver riportato i danni maggiori, giaceva lì svenuto. Ma anche Tommaso, Silvio, Piero in stato confusionale ricoperti di sangue erano stati catapultati a qualche metro di distanza dal gioco-bomba. Qualcuno si attivò a caricare il corpo dilaniato di Paolino su un carretto che passava e trasportarlo all’ambulatorio del medico. Zia Maria Teresa che aveva sentito lo scoppio e visto il grande trambusto che si era creato intorno cercò immediatamente il figlio: Paolino era scomparso. Col cuore in agitazione per un brutto presentimento che le aveva attraversato più volte la mente, uscì di casa per sapere e immediatamente ebbe una tragica conferma quando dai capannelli che si erano formati cominciò a sentire un nome:”Paolino, Paolino, Paolino è ferito”- “Ma ci sono altri feriti!” – “Chi sono gli altri feriti?”- E così un incalzare di domande sempre più stringenti e angoscianti intercalate da un pianto disperato e impotente. “Dov’è mio figlio? Chi l’ha visto? Com’era? Dove lo hanno portato?” Il medico non era attrezzato a fronteggiare situazioni così traumatiche: ripulì con alcool il sangue della mano sinistra spappolata, tolse le tante schegge che gli si erano conficcate in varie altre parti del corpo e poi fasciò tutto con lunghe bende in attesa di un ulteriore intervento ricostruttivo.
Cominciò per Paolino una vita diversa: la mano sinistra amputata delle dita era ridotta a un grumo che da quel momento gli avrebbe impedito di operare agevolmente con entrambe le mani. Il resto dell’estate la trascorse mezzo fasciato,seduto sui gradini di casa, docile e ubbidiente alle indicazioni della mamma che con pazienza e amore gli ripuliva e fasciava tutti i giorni le ferite che tardavano a rimarginarsi. Intanto – anche se noi non sapevamo quasi niente erano accaduti dei fatti politico-militari così rilevanti che sarebbe stata stravolta la vita della nazione e conseguentemente anche la vita delle nostre famiglie e di ciascuno di noi.
Nella notte fra il 24 e 25 Luglio 1943 il Gran Consiglio del PNF aveva votato la sfiducia a Mussolini che immediatamente venne fatto arrestare per disposizione del Re Vittorio Emanuele III. Il Re affidò l’incarico di capo del Governo al Maresciallo Pietro Badoglio. Il quale dopo aver condotto trattative segrete con gli Alleati angloamericani,” riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria” costituita dall’alleanza anglo-russo-americana,aveva chiesto l’armistizio che venne reso pubblico l’8 settembre 1943. In paese la notizia venne diffusa, con la solita enfasi, dalla radio del Corso e a noi ragazzi venne spiegato che la guerra era finita. In effetti accadde che il Re e il Governo fuggirono nell’Italia Meridionale già liberata dagli Alleati e quell’episodio che a noi venne presentato come la fine della guerra, fuori dalla Sardegna, nel resto d’Italia, divenne una furibonda e sanguinosa guerra di resistenza alle truppe Tedesche già nostre alleate- che ritirandosi verso il Nord distruggevano e uccidevano senza pietà e discriminazione alcuna.
Il 1°Ottobre del 1943 l’anno scolastico non iniziò né per Paolino né per tutti gli altri bambini: la scuola rimase chiusa. All’inizio fummo contenti delle vacanze prolungate poi, però, a mano a mano che passavano i giorni assolati dell’autunno e arrivavano le prime piogge cominciammo a sentire dentro di noi una sorta di tristezza e con essa anche un inspiegabile desiderio di ritornare a scuola.
Non vedemmo “tiu Giuanne su bidellu” agitare il suo bastone, aspettammo invano la maestra alta alta, non incontrammo Giuseppe, Lino, Giovanni, Pasquale, Paolino che avevano saputo anche loro dell’imprevisto contrordine: avremmo continuato le vacanze chissà per quanto altro tempo. La scuola era stata trasformata in ospedale militare. Anche noi cominciavamo a patire gli effetti della guerra in maniera sempre più pesante: la mancanza di viveri, di abbigliamento, le ferite dei compagni rimasti mutilati dagli ordigni militari usati come giochi, e adesso anche la chiusura delle scuole.
Questo racconto del nostro presidente Franco Simula meriterebbe di stare in una raccolta di racconti a tema di un editore blasonato quale Einaudi oppure Bompiani: grande qualità di narrazione e di richiami storici.
Non conoscevo il sistema di demarcare il campo di gioco con la pipi, noi usavamo graffiare il terreno o pavimento con una pietra raccolta nei dintorni.
Carissimo Franco, grande memoria storica, proprio ciò che oggi manca a tante persone e che sarebbe necessario per evitare le incomprensioni ai giorni nostri.
Il nostro inimitabile presidentissimo, in questo minuzioso reportage giornalistico sul conflitto mondiale del 1940/43, nella struttura narrativa di cronista, riesce, con pregevoli “flashback”, a dare spazio ai ricordi dei primi anni di scuola, frequentata coi suoi compagni di giochi, ricordandone i nomi e le fattezze: Paolino, Giovanni , Pasquale, Lino, Giuseppe …. tutti con la loro storia e attori di giochi spericolati. Tutto ciò raccontato con struggente nostalgia, nonostante i pericoli e le privazioni patite a causa degli eventi tragici, fortunatamente percepiti tra giochi e spensieratezza da una sana incoscienza infantile.
Bravo Franco.