Volare si Può, Sognare si Deve!

Curiosità

I locali scomparsi nel tempo – testi di Egle Farris

Ogni uscita era buona  per poterci andare , anzi ci andavamo apposta , risparmiando su quell’esiguo stipendio settimanale, in quella pescheria? friggitoria? paninoteca?

 Come si fa a definirla con un  termine odierno?     Forse con street-food?

Ma forse era tutto ,tutto questo . Si trovava all’inizio della via Turritana , a destra, appena voltavi da via B.Sassari, nell’angolo dove una vecchia paesana, pioggia vento o sole , stazionava per vendere lumache e finocchietti selvatici  e mazzetti di alloro e di aglio , olive verdi e nere.

E già prima di entrare sentivi il  succulento profumo del mare, e subito, ma allora si poteva, ti venivano servite una dozzina di cozze  a mezzo guscio, stillate di olezzante limone.  Di mezzi limoni era pieno un banco separato da un vetro  dai pochi tavolini a disposizone dei clienti ed esposti ai tuoi desideri  . Vedevi piatti ovali pieni di profumo di mare , vedevi  lunghe pagnotte bionde e morbide  pronte per essere aperte e farcite con   piccolissimi , teneri polpetti in umido o in guazzetto,frittura  e polpette di minuscoli calamari , un’insalata di mare che si scioglieva in odori e gusti sopraffini . E non vedevi neppure che il locale non era certo  molto elegante , rivestito com’era di piccole piastrelle bianche , proprio non te ne accorgevi, perchè due erano le cose che ti distraevano.

La prima il tuo grande amore di allora, e alzi la mano chi a diciotto anni non aveva un amore grande, la seconda la beatitudine di assaporare ad occhi chiusi un gusto  che oggi ha una struggente nostalgia, che oggi non trovi più, di dolcezza e sapidità e acidità  che continui a sentire nella testa e nel ricordo, ma che ti manca.

Perchè era l’essenza stessa del mare ,quel mare da dove venivano trigliette e calamaretti,  arselle e vongole che si aprivano un poco, un poco solo, per non disperdere quel sapore che si sarebbe  conservato per sempre nel tempo  per te , solamente per te .

Una signora col rossetto

Egle Farris

SU PULLMAN CUN SU FREEZING – Poesia di Franco Simula

SU PULLMAN CUN SU FREEZING

Dadu chi Maschu mi l’ad’ammentada
mi custringhet a mantenner sa prommissa
sa gita eallu già nos est costada
de ogni colore nos ‘ndat capitadu
Abba a trainu falaiat da-e chelu
randine mannu chi pariat ninzola
e nois che maccos sutta sa ranzola
chilchend’e nos coberrer cun giornales.
Invece ‘e istare in fila che crabolos
intrados esseremus a su pullman
a su mancu a-i custhu esserat selvidu.
Su pullman – betzu – no cheriat connottu
su motore andaiat toppi-toppi
e pariat chi aeret peldidu su motu. (Culpidu da-e Freezing improvvisu))
12 de Lampadas 2022
IL PULLMAN COL FREEZING

Dato che Marco me l’ha ricordata
mi costringe a tenere la promessa
ecco la gita già ci è costata
di tutti i colori ne son capitate
Acqua scendea dal cielo a catinelle
chicchi di grandine che parean nocciole
e noi qual matti sotto le gragnuole
cercavam di coprirci col giornale.
Più che restare in fil come caproni
entrare dovevamo sul pullmino
almeno a coprirci sarebbe servito
Il pullman - vecchio – non voleva visto
procedea zoppiccando il suo motor
sembrava avere perduto il bel fragor.
( Colpito da improvviso Freezing.)
12 giugno 2022

Franco Simula

P.S. Sia il testo italiano che quello sardo-logudorese sono scritti in rima sciolta, molto sciolta ...quasi liquida per poter rigustare meglio la fifa e le
risate dei giorni della gita del 28 maggio 22.

La gita a Nuoro – Testi di Franca Ghezzi

Seppure in pochi come “gruppo di Alghero”, abbiamo aderito all’invito di visitare la mostra fotografica realizzata al Museo di Nuoro da persone malate di Parkinson, che hanno voluto narrare il loro disagio, coinvolgendo  il visitatore in prima persona. È stato un momento unico, dove il raccontarsi attraverso la fotografia ha fatto scaturire sensazioni e emozioni che spesso tendiamo a nascondere dietro una maschera, per paura di essere feriti, davanti al pietismo altrui.

Purtroppo non c’è stato il tempo per una lettura più approfondita, perché il viaggio in pullman ci ha riservato sorprese inaspettate.

Durante la prima parte del tragitto mi ha colpito piacevolmente sentire il canto di “quel mazzolin dei fiori” accanto a quelli in logudorese, quasi a voler unificare le distanze e annullare i confini.

Il pullman però all’improvviso si è ritrovato in una posizione trasversale e non riusciva più a muoversi perché la strada era stretta. L’autista, ingannato da indicazioni scorrette, aveva sbagliato strada e nel tentativo di uscire da quello ”stallo“ è finito contro due muretti, un balcone e diversi vasi.

Spavento, paura, richieste di scendere, anche qualche momento di ironia per la buffa situazione. Finalmente dopo diverse manovre l’autista è riuscito ad uscire dal “sentiero” e a riprendere piano piano il cammino.

Dal finestrino abbiamo visto emergere le bocche di un cratere  dove in tempi remoti la lava, risalita dalle zone profonde, aveva reso fertile il terreno.

Dopo aver consumato un pranzo con prodotti tipici, ed essere stati allietati da altri canti, all’uscita del ristorante ci aspettava un’altra sorpresa: nel giro di pochi attimi una tempesta di grandine e scrosci d’acqua si sono abbattuti su di noi e , ritrovati bagnati e fradici,  ci siamo dovuti difendere come potevamo con maglioni, cappelli e magliette. Fortunatamente d’improvviso il paesaggio è cambiato e il verde della macchia mediterranea ci ha accompagnato per lunghi tratti.

Dopo l’accaduto nel gruppo permeava la certezza che non ci sarebbero più stati ostacoli per il rientro, mera illusione, perché di colpo con un forte fragore si è aperta la porta laterale del pullman e ci siamo trovati all’improvviso davanti ad una situazione a dir poco imprevedibile. Per poter porre rimedio a quanto era appena successo, e poter così  riprendere il viaggio, la porta è stata bloccata con un pezzo di spago. Esausti e stupiti siamo arrivati nella piazza di San Giovanni, dove ci siamo salutati, sfiniti e senza la forza di commentare ciò che avevamo vissuto.

Nei giorni successivi ho immaginato questa nostra avventura come il viaggio di una nave che fende  i flutti con coraggio e determinazione,  una nave sulla quale abbiamo affrontato gli ostacoli che quotidianamente la vita ci presenta e che tutti insieme, come gruppo, siamo riusciti ad affrontare, dimostrando a noi stessi che il nostro spirito è più forte delle avversità. Noi siamo più della nostra malattia.

Saluti                  Franca Ghezzi

E CHE TREMORE SIA di Kai S. Paulus

Nei primi anni adolescenziali mi trovavo spesso sdraiato per terra insieme ai miei fratelli Patrick e Urs ad ascoltare le divertenti trasmissioni radiofoniche di Radio Luxembourg con Frank Elstner, che negli anni sarebbe diventato uno dei più famosi moderatori della televisione tedesca e ideatore di tanti programmi di successo, tra cui “Scommettiamo che…” molto noto anche in Italia.

Avevo perso le tracce di Frank Elstner, finché una settimana fa Patrick mi ha mandato una presentazione del libro “Dann zitter ich halt. Leben trotz Parkinson” (‘E che tremore sia. Vivere nonostante il Parkinson’), edito da Piper Verlag (Monaco di Baviera), in cui ho scoperto la malattia della star televisiva, oggi, ad oltre 80 anni, ancora in attività nonostante otto anni Parkinson.

Il libro è costruito in forma di intervista tra Elstner ed il suo neurologo prof. Jens Volkmann, ed i due passano in rassegna tutti i principali sintomi della malattia di Parkinson, dal tremore alla rigidità, dal freezing a sbandamenti e cadute, dalla micrografia alle discinesie, alla scialorrea e disfagia, fino al rallentamento motorio, ed i due si soffermano molto anche sui sintomi non motori, quali insonnia e disturbi del sonno, la depressione, i dolori, la stitichezza, la riduzione dell’olfatto. Tutti gli argomenti vengono trattati in modo sufficientemente approfondito ma in maniera comprensibile e spesso autoironica e simpatica.

La conversazione si snoda scorrevolmente, spesso intercalata con piccoli paragrafi su argomenti imparentati con il Parkinson, quali la sindrome delle gambe senza riposo, il tremore essenziale, i parkinsonismi, ed altri; molta attenzione viene dedicata anche ai cosiddetti segni prodromici, cioè quei sintomi con cui subdolamente e mascherato ha inizio tutto, molto prima delle prime manifestazioni motorie tipiche (rallentamento, rigidità, tremore), quasi all’insaputa della vittima che solo anni dopo, ripercorrendo la propria storia, coglie le avvisaglie nascoste (disturbi del sonno, stitichezza, depressione, ecc.).

Il libro non è un testo scientifico e presenta i disagi ed i problemi del Parkinson nella quotidianità della vita. E si parla dei familiari, dei caregiver, dei terapisti e dei medici, e per la prima volta ho letto delle raccomandazioni su come comportarsi davanti al medico che ho trovato una perspettiva insolita, visto che noi ci occupiamo solitamente solo del comportamento degli operatori sanitari e non anche viceversa.

Elstner e Volkmann discutono i vantaggi di una corretta dieta, le terapie con le loro possibili complicazioni, e soprattutto parlano del modo migliore per affrontare la malattia: rimanere attivi, dormire bene e affrontare il rapace infingardo (cit. G.B.) con decisione. Ma proprio qui il libro mostra, a mio avviso, il suo aspetto migliore, quando la star televisiva ogni volta si lamenta che gli viene difficile seguire tutti i buoni consigli a causa dei dolori, della lentezza dei movimenti, della fatica e dell’insoddisfazione generale, ed il professore ogni volta trova il modo di rasserenare il suo assistito.

Ho letto tanti libri scritti da persone che lottano contro su nemigu (cit. Peppino Achene), e penso che questo dialogo sia un ulteriore arricchimento. Speriamo che “Dann zitter ich halt” venga tradotto in italiano perché è ricco di situazioni che ogni persona affetta da Parkinson vive quotidianamente ma a volte non riesce a gestire nel modo migliore.

Una partita col diavolo – testo di Franco Simula


Il pallone. Una passione irrefrenabile. Una passione che a 16-18 anni ti pervade e diventa pensiero dominante, ossessivo, che non si placa se non sul campo da gioco, dal quale finalmente rientravi a casa soddisfatto, dopo ore di corsa, di stacchi aerei, di scatti brucianti, di richiami ai compagni, di sudore, di fatica. Stanco ma soddisfatto. La passione era così forte e propulsiva che ti spingeva ad andare oltre ogni limitazione di carattere ideologico, politico, religioso.

Anche il campo da gioco allora era un problema: mancavano gli spazi in grado di ospitare tutti i giovani che volevano praticare uno sport, e quelli che lo praticavano dovevano accontentarsi di un rettangolo in terra battuta che era l’unico spazio disponibile costruito qualche decennio prima dal regime fascista per la formazione atletica dei giovani. I campi verdi con l’erbetta facevano parte dei sogni per noi irrealizzabili, costituivano solo cronache sportive raccontate dai radiocronisti dell’epoca: per tutti ricorderò Nicolò Carosio. In quegli anni l’unico campo sportivo dell’epoca era di proprietà del Comune e conseguentemente soggetto alle “assegnazioni” politiche degli amministratori del momento che favorivano alcuni e danneggiavano altri; ma chi sentiva bruciare dentro il “sacro” fuoco, superava qualsiasi ostacolo.

A metà degli anni cinquanta – in un clima politico caratterizzato dalla contrapposizione fra comunisti e cattolici- a Ittiri giocavano due squadre di calcio a contendersi la platea dei tifosi: una era la squadra della RINASCITA che faceva capo all’UISP ed era sponsorizzata dall’allora Sindaco socialcomunista Leonardo Gambella; l’altra era l’U.S. ITTIRI voluta dal giovane vice parroco del paese don Michele Merella.

Allora a Ittiri due squadre di calcio erano forse troppe, tanto è vero che periodicamente qualcuna delle due perdeva dei “pezzi” o perché qualche titolare della squadra andava a lavorare fuori paese o perché addirittura erano costretti ad emigrare in paesi stranieri. Non sempre le due squadre riuscivano a mantenere a lungo 11 titolari stabili: il gioco del calcio per noi non era una professione ma puro diletto. Non di rado accadeva quindi che le due compagini si trovassero a dover gestire organici ridotti e che si rendesse necessario chiedere rinforzi agli “avversari” soprattutto se questi attraversavano un periodo di m agra e avevano qualche giocatore disponibile. In una di queste circostanze di inattività della mia squadra a me e ad altri due amici fra i migliori della squadra venne rivolto l’invito di giocare con la formazione avversaria. All’inizio la notizia venne appresa dagli amici con noncuranza ma anche con un po’ di invidia perché i dirigenti della Rinascita -accantonando un po’ dell’orgoglio di squadra che caratterizzava quei tempi da Peppone e Don Camillo – avevano deciso di rinforzare la formazione chiedendo il contributo atletico di alcuni fra i migliori dell’altra compagine. La notizia però, non aveva lasciato indifferente il vice parroco che era deciso fortemente ad impedireuna tale inaccettabile contaminazione.

Naturalmente il vice parroco mi contattò immediatamente per cercare di farmi capire quale cattivo esempio avrei dato alla comunità dell’Azione Cattolica paesana che sostanzialmente aveva sponsorizzato la squadra di cui ero “l’alfiere”. Il richiamo del pallone, però, era fortissimo mentre la mia disponibilità ad accettare l’invito alla rinuncia, nessuna.

Niente, d’altronde, era stato detto agli altri due che assieme a me stavano “tradendo” i colori della squadra, chi doveva dare l’esempio di attaccamento alla squadra e alla ideologia che l’aveva ispirata ero soprattutto io. Questo forte richiamo rivolto esclusivamente a me, era giustificato dal fatto che la mia famiglia .dal punto di vista dell’osservanza religiosa- era molto conosciuta nel paese e quindi io non potevo incautamente espormi ad essere “usato” dagli avversari.

Ma io pur di giocare a pallone ero disposto a giocare col diavolo. Il giorno della vigilia subii nuovi e più pressanti assalti di dissuasione che, però, interiormente ero sempre meno disposto ad accettare.

Arrivò finalmente il giorno della partita: io ero sempre più determinato a indossare la maglietta della Rinascita ed entrare in campo.

Sino a qualche momento prima dell’inizio mi erano arrivati messaggi di invito alla rinuncia che a tratti assumevano il sapore della minaccia.

Ore 15. inizio della partita. Io entrai in campo convinto ormai che la decisione fosse irreversibile e che per 90 minuti avrei potuto dare sfogo alla mia grande passione senza condizionamenti di chiese o di partiti.

Ma la partita per me non durò 90 minuti.

Il vice parroco – informato in tempo reale di quel che stava capitando – andò immediatamente dai miei genitori per informarli del turpe “tradimento” che stavo consumando contro i principi ai quali la mia famiglia si era sempre ispirata: e tutto per una banale partita di calcio. Per me quella partita non era né banale né trascurabile: era la mia passione, in quel momento della mia vita era tutto.

“Vostro figlio sta giocando coi comunisti e voi non fate niente per impedirglielo”. L’intervento del vice parroco non rimase inascoltato. Mio padre uscì di casa “caricato” per bene e si diresse al campo deciso ad interrompere in qualsiasi modo la mia intollerabile ribellione.

Arrivato al campo, mio padre entrò direttamente sul rettangolo di gioco per impormi di uscire immediatamente Il ventiquattresimo uomo in campo aveva destato grande meraviglia fra gli spettatori e fra i giocatori che non riuscivano a capire il motivo di questa imprevista e strana invasione di campo in un momento in cui l’incontro si svolgeva su un piano di estrema correttezza. L’approccio non fu né facile né di breve durata. Perché tutte le volte che mio padre stava per avvicinarsi a me l’azione del gioco si spostava da un’altra parte del campo e io, all’inseguimento del pallone, rendevo vani i suoi tentativi di approccio. Considerato, inoltre, che mio padre era uno dei miei “tifosi” più convinti, appariva chiaro che aveva dovuto svolgere questo mandato contro la sua volontà. Però però occorreva mettere riparo in qualche modo alla “vergogna” di cui avevo ricoperto la famiglia.

Finalmente mio padre riuscì ad avvicinarsi per impormi di abbandonare immediatamente il campo.”Vieni fuori” mi intimò. Riuscii ad ottenere la compromissoria concessione che avrei smesso di giocare alla fine del primo tempo. E così andò. Dopo soli 45 minuti, alcuni dei quali carichi di angoscia, si concluse la mia partita che, forse, avrebbe potuto designarmi come “il migliore” fra i giocatori delle due squadre.

E invece tutto andò a rovescio.

Nell’ambito sportivo era svanita per una discutibile presa di posizione l’opportunità di dimostrare alla generalità dei tifosi di sapermi battere lealmente in una gara sportiva prescindendo dai colori delle magliette.

Nell’ambito familiare andò anche peggio. La sera, infatti, rientrato a casa sembrava che ci fosse il morto: mi avevano accolto visi lunghi e tristi invece dei complimenti di incoraggiamento. Una partita di calcio (anzi mezza partita) era stata sufficiente a mandare in crisi una famiglia e i suoi rapporti con le istituzioni religiose: insomma un dramma. Per me tutto era stato molto più semplice: era stato l’appagamento di un desiderio straripante, riconducibile a una grande passione che era il gioco del calcio. Tutto qui: senza ideologismi o settarismi di alcun genere.

Franco Simula

3 aprile 2022 65 anni dopo l’evento


I mestieri scomparsi: le lavandaie – testi di Egle Farris

Andavano, meglio scendevano, scendevano per quello stradone polveroso di bianco.   Vidi correre diverse persone urlanti e poco dopo apparve una poveretta bagnata per intero di acqua e sangue. Dalle concitate parole ed urla, io piccola, capii che il fattaccio era avvenuto al lavatoio. La  protettrice delle donne, santa lavatrice, era di là da venire, tanti , troppi anni dopo, assieme ai primi detersivi in fustino, che venivano pubblicizzati due per uno, se acquistavi la marca migliore.                                                                                                         

Perchè allora un consistente numero di case non aveva neppure acqua corrente e ripenso così alla fatica delle nonne o bisnonne e non mi spiego come potessero , anche in pieno inverno , quegli inverni ! , fare tutto ciò. Lavoro pesantissimo , cenere bianca e saponi autarchici , derivati da soda e tutto il grasso animale che riuscivano a racimolare , bollendo l’ impasto nella strada in un infernale calderone , spandendo acri e maleodoranti afrori. Alternativa non ne esisteva .  Venivano giù, contratte per il peso, per quello stradone. Si ritrovavano la mattina presto , con vecchie e cigolanti carriole le lavandaie di professione,  cariche di panni, e “lamoni ” di latta zingata  quelle che accudivano la propria famiglia,  un incedere elegante e spavaldo che avrebbe fatto invidia a Naomi Campbell , dato da anni di  ceste tenute in bilico sul capo da un cercine e dalle mani a coppa sui fianchi.   Calzerotti di lana grezza , scendevano e , sotto le cannelle , si lavava , stropicciava, sciacquava , sciorinava , con le mani rosse di geloni grandi come noci e artritiche e che  a trenta  anni erano già intorcinate come fil di ferro arrugginito, dimenticato per sempre quell’andare   giovanile ed audace, spavaldo e baldanzoso ,intrepido e tosto. E con lo sporco si scaricavano tensioni ,malumori e rancori di una vita difficile. Luoghi di chiacchiere ,aggregazione,gossip ,pettegolezzi e ogni scusa era buona per litigare e far scorrere il sangue . Le notizie si diffondevano nei e dai lavatoi, centri sociali della comunicazione di allora  (face-book ante-litteram ?) . E quando il tempo migliorava era forse più facile ridere ,cicalare, e cantare a voce spiegata  mentre si stendevano al sole i bianchi panni . D’altronde. chi mai avrebbero disturbato, povere donne?    Ma si sbrigassero , si affrettassero con i canti e i cori e le risate e le ciance, parevano mormorare i lunghi , affusolati cipressi appena smossi dal vento leggero  , che  sussurravano e bisbigliavano che Il tempo , velocemente e  senza  aspettare nessuno, se ne va,   perchè il lavatoio ,  come  inganno  finale , si trovava all’estrema periferia  del paese , giù giù in fondo , dietro la curva , proprio di fronte   a quei cipressi che ,silenziosamente , come fantasmi leggeri , proteggevano il cimitero…….

Una signora col rossetto

Egle Farris

DIE INNERE UHR – EIN WEIHNACHTSMÄRCHEN von Kai S. Paulus

Innere Uhr

(su richiesta per i nostri amici tedeschi)

Es war einmal, vor langer, langer Zeit, da lebten in einem mysteriösen und fast unbekannten Dorf, welches Soprachiasmaticus hieß und von einer völlig fremden Wissenschaft regiert wurde, die Chronobiologie, ein altes Genen-Paar mit unaussprechlichen Namen, die wir einfacherweise Clock und Bmal nennen. So wie auch wir es gewohnt sind, waren diese Gene vorallem am Tage aktiv, aber da sie alt waren, konnten sie nicht ihren familiären Nucleus verlassen und waren auch nicht in der Lage, schwere Arbeiten zu verrichten. Deshalb beauftragten sie zwei junge und dynamische Elfen, Per und Cry, früh am Morgen ihren Nucleus zu verlassen und draußen Bausteine herzustellen, viele Bausteine, aber nicht aus Ton und Zement, sondern aus edlen Proteinen.

Jene Steine sind ganz besonders und dienen verschiedener Zwecke: sie wandern vom Hauptdorf Soprachiasmaticus über verschiedene Wege zu anderen, bewohnten und verwunschenen Zentren, deren Namen an weitentfernte Galassien erinnern: Locus Coeruleus, Peopticus Ventrolateralis und Hypothalamus Dorsomedialis. Dank dieser von Per und Cry hergestellten Bausteine, erleuchten die Strassenlampen in all diesen Dörfern, die sich plötzlich mit unerahntem Leben füllen, und es beginnen unglaubliche und wunderbare Tagesaktivitäten; ein wahrhaftiges Paradies.

Innere Uhr

Il bosco incantato, tecnica mista, Daniele Consani

Wie das aber mal so bei anständigen Maerchen ist, wartet schon das Böse an der nächsten Ecke. Und so passierte es auch in unserem Märchen, dass die Dunkelheit hereinbrach, ausgerechnet wegen derselben Steine, die gerade die Straßen von Locus, Preopticus und Hypothalamus erleuchtet hatten. Ihr mueßt wissen, daß einige der Bausteine nicht in die Periferie gelangt waren, sondern still und heimlich, so wie richtige Verräter, zurück in den Familien-Nucleus gekehrt, und ihre eigenen Ahnen, Clock und Bmal, aus dem Verkehr gezogen und gefesselt hatten.

Doch, zum Glück, um bei den typischen Märchen-Klischees zu bleiben, die Bösen verlieren am Ende immer und das Gute triumphiert. Und in unserem Falle, Clock und Bmal, blockiert und nicht aktiv, konnten die jungen Elfen Per und Cry nicht motivieren, die ihrerseits keine Bausteine herstellen konnten, weder die guten, geschweige denn, die bösen. Und so erloschen alle Lichter und die Nacht kam über das Land. Doch in Abwesenheit der bösen Steine waren unsere Clock und Bmal wieder frei und bei Sonnenaufgang konnten sie wieder die Arbeiten leiten und der Zyklus began wieder von vorne.

 

P.S.:

Seit Jahrzehnten versucht man, die Mechanismen, die dem Wach-Schlaf-Rhythmus zugrunde liegen, zu verstehen; dieser Rhythmus ist an das Wechselspiel von Licht und Dunkelheit gebunden und beeinflußt viele organische Parameter, wie die Körpertemperatur, die Laune, die kognitiven und physischen Fähigkeiten. Und so waren die amerikanischen Wissenschaftler Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash und Michael W, Young schon lange Zeit jedem einzelnen Teil dieses Systems auf der Spur; dieses System befindet sich im Hirnzentrum und schließt den Nucleus Soprachiasmaticus (in direktem Kontakt zum Auge und kann somit die anderen Strukturen ueber Hell und Dunkel informieren), den Nucleus Preopticus, den Locus Coeruleus und den Hypothalamus ein; die letzteren liegen in der Nähe der aufsteigenden Bahnen der Formatio Reticularis, worüber die Hirnrinde ueber exzitatorische Reize für den Wachzustand und über inhibitorische Reize für den Schlafzustand informiert wird.

Schon seit langem kannte man die Gene Circadian Locomotor Output Cycle Kaput (CLOCK) und Brain and Muscle ARNT-like 1 (BMAL1), und auch vieler ihrer Endeffektoren, doch fehlte das Element welches alle Teile miteinander verbindet und das gesamte System schlüßig erklärt. Mit den Genen Period 1-3 (PER) und Cryptochrome 1-2 (CRY) konnten Hall, Rosbash und Young nun endlich alle genetischen Mechanismen des zirkadianen Rhythmus, die Innere Uhr, unseres Organismus erklaeren, und wofür sie 2017 den Nobel-Preis der Medizin erhielten.

Orologio 2

Il sogno di Anto Park

Dal mio forziere segreto

del quale solo io ho la chiave,

dove la mia mente

va a cercare conforto

nei momenti bui,

dove sono nascosti i più bei

ricordi, oggi prendo il mio

vestito da Peter Pan, verrà

a trovarmi mio nipotino Elias.

Credo che saliremo

ancora una volta

sull’olandese volante…

Buon sabato amici miei

Anto  Park

1943 Gli Sfollati di Franco Simula


Il 2 settembre 1939 Hitler invade la Polonia.

Il 9 settembre Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania: è l’inizio della seconda guerra mondiale L’Italia, al momento, dichiara lo stato di non belligeranza. Nel mese di maggio del 1940, Hitler occupa la Danimarca e la Norvegia e poco dopo, nell’ordine, l’Olanda il Belgio e il Lussemburgo. Mussolini constatando l’azione travolgente di Hitler ma soprattutto temendo di non poter sedere al tavolo dei vincitori, dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra mentre le truppe tedesche entrano a Parigi.

Il 27 settembre 1940 viene stipulato un patto di alleanza fra Germania, Italia e Giappone. Nel novembre del 1940 fallisce il tentativo della Germania di invadere l’Inghilterra. Poco dopo Hitler decide lo sterminio totale degli ebrei residenti in territori tedeschi. Mediante un piano definito “soluzione finale” inizia l’uccisione sistematica di milioni di ebrei rinchiusi nei campi di sterminio nazisti.

Il 22 giugno 1941 la Germania aggredisce l’unione Sovietica; a questa operazione partecipano anche l’Italia, la Romania, l’Ungheria, La Slovacchia e la Finlandia: l’esercito sovietico oppone una eroica resistenza e impedisce l’occupazione di Mosca, Stalingrado e Leningrado.

12 Luglio 1941: stipula dell’alleanza russo-inglese.

12 Agosto 1941.Roosevelt e Churchill firmano la “Carta Atlantica” di alleanza.

7 Dicembre 1941: senza dichiarazione di guerra l’aviazione giapponese bombarda la Flotta americana e la distrugge quasi completamente. Il giorno seguente gli Stati Uniti dichiarano guerra al Giappone.

1 Gennaio 1942. I rappresentanti di 26 nazioni sottoscrivono a Washington la Dichiarazione delle Nazioni Unite con cui si impegnano a portar guerra a Italia, Germania e Giappone.

Nel novembre del 1942 si risolve la campagna d’Africa con la vittoria degli inglesi sui tedeschi a el-Alamein.

1943: il 2 febbraio l’armata tedesca si arrende a Stalingrado:

1943 : il 10 Luglio le truppe Alleate (americane, inglesi, canadesi sbarcano in Sicilia. Inizia per l’Italia uno dei momenti più tragici della sua storia civile e militare. Le truppe alleate cominciano a bombardare a tappeto l’Italia che l’8 settembre è costretta a firmare un armistizio.

1943: dopo la riunione del Gran Consiglio il 25 Luglio Mussolini viene arrestato e in Italia si forma il governo Badoglio.

L’8 settembre 1943 Badoglio annuncia l’armistizio dell’Italia con gli Alleati. Il Re Vitt. Em III e il Governo fuggono a Brindisi nell’Italia Meridionale liberata dagli Alleati.

Il 10 settembre i tedeschi occupano Roma e l’Italia Settentrionale.

Gli Alleati, sbarcati in Sicilia, iniziano la “Campagna d’Italia” avviando una serie di bombardamenti a tappeto; non viene risparmiata neanche la Sardegna: Cagliari, Sassari Alghero subiscono gravi perdite di persone e abitazioni. Le popolazioni sentono concretamente minacciate le loro esistenze e cominciano a pensare a delle condizioni di vita alternative, meno esposte. Dalle città si pensa a rifugiarsi nei paesi più piccoli, dai piccoli centri si pensa a un rifugio più sicuro nelle campagne.

Anche a casa mia la paura si impadronisce degli animi e si comincia a pensare a un possibile trasferimento in campagna. Era una possibile realistica soluzione dal momento che nonno possedeva una campagna bella e anche grande ( circa 15 ettari ), come grande era la casa che avrebbe dovuto ospitare anche la nostra numerosa famiglia.

Era il mese di maggio la stagione era quindi propizia per andare a rifugiarsi in campagna nella speranza che la vegetazione rigogliosa della primavera aiutasse meglio a mimetizzarsi sotto le fronde degli alberi e inoltre era ormai arrivato il periodo delle ciliegie. Si decise di fare una riunione familiare presieduta da nonno Fadda che, per la sua famiglia composta di persone adulte, aveva rinunciato a un trasferimento in campagna.. La casa di campagna era composta da un piano seminterrato che ospitava due mucche che fornivano il latte per la famiglia, e di due ambienti a piano terra. La stanza che comunicava con l’esterno era la più ampia e accogliente ed era quella in cui sarebbero state ordinate alcune balle di foraggio in modo da ottenere un grande letto che potesse ospitare tutta la famiglia.

La famiglia in quel momento storico era composta da padre madre e sei figli. Per completezza di notizia è corretto ricordare che nei primi dieci anni di matrimonio mamma aveva avuto sette figli l’unica che mancava all’appello era una sorellina che era morta di gastroenterite acuta a poco più di un anno di età. Sempre nella riunione familiare nonno Fadda che conosceva a menadito la campagna si preoccupò di ricordarci che a cento metri dalla casa campestre c’era una fontana, anzi la fontana, l’unica fontana che riusciva a soddisfare le arsure dell’estate e le più elementari esigenze dei tanti campagnoli che avevano le campagne confinanti con “Chereno”. Assieme ai miei genitori formarono un elenco delle cose indispensabili da portare per affrontare il periodo che avremmo trascorso al riparo dalle bombe. Un bel giorno di maggio effettuammo il trasferimento a Chereno: l’operazione non fu né semplice né priva di pericoli dal momento che ci si doveva spostare in otto più nonno che, a cavallo , doveva guidare la brigata babbo, mamma e sei figli il più piccolo dei quali era Mario che da qualche giorno aveva compiuto appena sette mesi e quindi doveva essere portato in braccio da qualcuno, anche Tonino di un anno più grande aveva necessità di essere badato da qualcuno; il compito di badare ai figli più grandicelli fu affidato naturalmente a babbo. Il viaggio doveva esser fatto a piedi e anche se la distanza non era eccessiva la strada, a tratti, non era molto agevole. Meno male che si poteva fare affidamento sulla cavalla di nonno che avrebbe trasportato mamma con Mario. La cavalla era la stessa che due anni prima, mentre Vanna e Maria giocherellavano con la sua lunga coda, aveva sferrato una zoccolata sulla testa di Maria che cominciò a perdere così tanto sangue che Vanna ed io, piccolini (avremo avuto rispettivamente tre e quattro anni) e spaventati per lo spettacolo impressionante, disperati e piangendo andammo alla ricerca di qualcuno che facesse intervenire un medico. In brevissimo tempo Maria fu affidata alle cure del dott. Francesco Nieddu (cugino di Peppe) che, dopo varie cuciture sul cuoio capelluto alquanto lacerato, ci restituì Maria con la testa tutta fasciata: solo gli occhi erano rimasti liberi.

Ancora oggi, dopo circa 80 anni, Maria può mostrare, ben conservato sotto i capelli, il marchio nitido della zoccolata del cavallo. Che nel trasferimento in campagna sarà ancora protagonista; infatti nel trasferimento nonno guidava il cavallo e mamma era seduta sulla groppa con Mario aggrappato a Lei. Sembrava una di quei dipinti natalizi del rinascimento che rappresentano San Giuseppe con la Madonna e il Bambino. Babbo si occupava di badare agli altri cinque figli che erano già un gran daffare.

Arrivati finalmente in campagna occorreva sistemare le provviste essenziali, preparare il letto con delle lenzuola adeguate che impedissero le punture del fieno e l’invasione di fastidiosi insetti.

Da considerare innanzitutto che i nostri genitori si erano portati al seguito sei figli da gestire il più grande dei quali, Peppino, aveva appena dieci anni; gli altri, a scalare, erano tutti più piccoli, sino a Mario che doveva compiere otto mesi. Per quanto tempo sarebbe durato questo sfollamento in condizioni di così profondo disagio rappresentato dalla mancanza di tutto ciò che offre una casa anche modestamente attrezzata? I genitori che erano stati i primi ad abbracciare l’idea del trasferimento in campagna come alternativa alle bombe furono anche i primi a rendersi conto che la vita in campagna era comunque difficile.

La notte caratterizzata da una serie di novità passò come un divertimento rappresentato dal letto originale, dalla stanchezza del viaggio e dal divertimento del pomeriggio trascorso ad esplorare un mondo completamente diverso dal solito, dal pensiero anch’esso suggestivo che al mattino seguente avremmo fatto colazione col latte munto alle due mucche “Peppita” e “Corredda” che si trovavano sotto di noi nella stalla seminterrata. E infatti l’indomani per la colazione trovammo il latte delle mucche che il pastore, all’alba, si era preoccupato di mungere. Tutte queste novità di vita, inserite tutte insieme dalla sera alla mattina, erano per noi piccoli motivo di divertimento imprevedibile e di scoperte eccitanti.

Dello stesso parere non erano i nostri genitori che dopo due/tre giorni di vita in campagna realizzarono che i sacrifici e i disagi che la nuova vita comportava erano sproporzionati rispetto ai vantaggi presunti che garantiva. La decisione opposta a quella adottata qualche giorno prima non tardò ad arrivare e riunite le poche cose che ci eravamo portati appresso riprendemmo la via del ritorno. In effetti accudire a tanti figli, alcuni dei quali molto piccoli, creava delle difficoltà insuperabili.

A questo punto, soprattutto da parte di mia madre, venne messa in atto quella pratica di fede che trovava conferma nella formula ripetuta nei momenti di difficoltà:”Ci penserà la Provvidenza”.

“Se la sirena annuncerà nuovi passaggi di aerei andremo a rifugiarci in cantina sperando nella buona sorte”.

Franco Simula 3-12-2021


Le botteghe di Sassari svanite nel tempo – testo di Egle Farris

 

Potevamo solo guardarle ,noi  squattrinate liceali dei primi anni ’60 .

Le vetrine di Bonino erano specchietti per le classiche allodole ,ma noi eravamo sempre senza un quattrino. Eleganti ,fashion come oggi si direbbe, ma per  noi proibite quelle grandi marche, causa il prezzo non abbordabile . Guardavamo bene e dopo  si scendeva  al Corso, più o meno a metà, sulla sinistra,  dove un’insegna sbiadita  e polverosa  riportava  “Sanitas” e al dissotto “Profumeria”, sicuramente con i prezzi più alla nostra portata.  Tutto potevi immaginare fosse, tranne una profumeria, o almeno una profumeria non sedotta dalle mode del momento.  Forse questo nome, profumeria, evoca, di allora,  distinte signore col colletto di volpe, le zampine e gli occhietti di vetro finto-rossi, sul paltò rivoltato o forse un’essenza mai scordata come ” La violetta di Parma” o la   cipria Coty.                                                                                              

Ma è un errore. Già prima di entrare, le due vetrine laterali rigorosamente di legno stinto, ti attiravano come un quadro di Picasso in un museo: non capivi niente ! Tutto ,scatole ,barattoli ,tubetti, boccette, piumini, collane, bottiglie erano disposti in un disordine che pareva casuale, ma c’erano voluti invece anni ed anni per completarlo. Ed entravi nell’incrocio fra l’antro di Mago Merlino, luogo buio e avvolgente, e gli scaffali, dove il disordine era impilato con metodo, e l’accogliente profumo cipriato dell’eau. M. Farina, inconfondibile.   Un proprietario senza età, azzimato e cortese e sua moglie , un foulard perennemente in testa, entrambi secchi come zolfanelli spenti , uscivano dal retro , che immaginavi pieno di storte ed alambicchi senza ordine e capo e dai quali , per magia o per inganno , fuoriuscivano liquidi di ogni colore  ed impalpabili ciprie , create da gnomi.  E quando chiedevi un prodotto , convinta che comunque quelle due figure  venute e rimaste lì da un altro tempo, non lo avrebbero trovato in quel bailamme, ecco che ti veniva immantinente  servito e prontamente incartato, mentre tu annusavi quegli aromi. E poi, in primo piano, una scatola ricoperta di carta dorata , che riportava un elegante  pin-up  maggiorata e un ghirigoro . “Volumizzate  il  vostro seno in modo semplice e veloce “.  Era il via per noi tutte, figurarsi …..a quel prezzo!!! E te ne andavi convinta di aver comprato arsenico e vecchi merletti, si, ma non giungevi mai ad immaginare, come fecero due  delle mie amiche, che la crema che ti eri accaparrata per  volumizzare le tette, loro, le piccole ingrate tette, invece, non avrebbero messo su nemmeno un ette.  In compenso però, ti sarebbero venuti due capezzoli lunghi lunghi …….lunghi  almeno tre centimetri……   

Una signora col rossetto  ( ormai poco).

Egle Farris