Volare si Può, Sognare si Deve!

Cultura

TONINO E GLI ALTRI CAREGIVER

Caro Tonino,

Le scrivo, non per distrarmi ma perché c’è qualche novità per il ‘portatore sano’.

L’altro giorno mi è arrivato il nuovo numero di “Movement Disorders Clinical Practice” in cui ho letto un interessante articolo del gruppo di scienziati statunitensi, olandesi e canadesi intorno a Max Hulshoff sulle difficoltà e sui bisogni del ‘portatore sano’, il/la caregiver, nella gestione della malattia di Parkinson.

Il lavoro è una specie di riassunto di tutti i lavori riguardanti i caregiver pubblicati tra il 2004 ed il 2020. E qua subito una nota dolente: gli articoli scientifici considerati sono in tutto 27, e paragonati agli oltre 84.000 sulla malattia di Parkinson, sono davvero pochissimi, come per indicare che coloro che si occupano ed assistono le persone ammalate di Parkinson non vengano considerati dalla scienza ufficiale.

Dallo studio si evince che sembra molto difficile quantificare il peso, i bisogni e le capacità di affrontare [traduzione delle parole utilizzate dagli autori: burden=peso, needs=bisogni, coping=capacità di affrontare] le più variegate situazioni della persona che assiste un’ammalato/a di Parkinson, e specialmente nelle varie fasi della malattia, e solo una ricerca ci è riuscita sinora, quella di Pablo Martinez-Martin e colleghi nel 2019. Però sono proprio questi i parametri, cioè peso, bisogni e capacità, che bisogna comprendere per poter eventualmente intervenire ed aiutare i caregiver socialmente, culturalmente ed istituzionalmente.

Nell’articolo “Il Portatore Sano” pubblicato in questo sito, che potete trovare nell’archivio sotto ‘marzo 2020’, abbiamo ampiamente affrontato i tanti aspetti di questo ‘lavoro’, e quindi qui non vorrei soffermarmi sui particolari, però leggete anche le incredibili testimonianze nei commenti che descrivono molto bene la realtà quotidiana e le tante difficoltà nell’affrontare costantemente la sindrome parkinsoniana, con le sue continue fluttuazioni e volubilità, le sue improvvisazioni ed imprevedibilità.

Questa volta gli scienziati hanno osservato la qualità di vita dei caregiver e concludono che il sonno, il tono dell’umore ed il tempo dedicato a sé stessi sono messi in pericolo; questi ‘pesi’ ovviamente richiamano i ‘bisogni’, le necessità, gli aiuti, che a loro volta condizionano le capacità individuali nell’affrontare l’assistenza; d’altra parte, se non ci sono sufficienti capacità nell’affrontare le difficoltà, allora il peso e la fatica, non solo fisica ma anche mentale, aumentano enormemente portando l’asta dei bisogni, degli aiuti, a livelli non più raggiungibili.

Di conseguenza accrescono preoccupazioni, ansia, senso di inadeguatezza e di frustrazione; con l’ansia incrementano l’insonnia e la riduzione del tono dell’umore; alla fine prevalgono incomprensioni e difficoltà di comunicazione, ed anziché alleggerire i disagi di una persona, ora ci saranno due persone che necessitano di notevoli aiuti.

Gli autori concludono che ci vogliono più attenzione e più studi scientifici che esaminino approfonditamente la situazione dei ‘portatori sani’, coloro che gestiscono quotidianamente, e spesso giorno e notte, le persone con Parkinson, perché soprattutto da loro, gli eroi nell’ombra, dipende la salute e la qualità di vita dei loro assistiti.

Penso che questo articolo dimostri che qualcosa stia cambiando e che la sensibilità della comunità scientifica verso i caregiver stia migliorando. E’ questa la novità.

Cordiali saluti,

Kai Paulus

 

Fonti bibliografiche:

Hulshoff MJ, Book E, Dahodwala N, Tanner CM, Robertson C, Marras C. Current knowledge on the evolution of care partner burden, needs, and coping in Parkinson’s Disease. Movement Disorders Clinical Practice 2021; 8(4):510-520.

 

Paolino – Testo di Franco Simula


1° Ottobre 1942

1° Ottobre 1942, primo giorno di scuola. Una di quelle calde giornate di inizio autunno che ti fanno sognare ancora giochi fantastici nelle strade e nelle piazze di paese ancora occupate da lenzuoli ricoperti di uva, fichi, sorbe, posti a seccare prima di diventare regalo desiderato nelle “cerche” per i morti; noi ragazzi di prima elementare– ancora tutti spaesati- dovevamo andare a rinchiuderci a scuola.

Eravamo in 36 in quella prima classe guidata da una maestra alta alta, per noi bambini piccoli piccoli e frastornati. Nell’atrio della scuola nessuno sapeva che fare, nessuno sapeva dove andare anche perché eravamo controllati e minacciati a vista da “tiu Giuanne su bidellu” che pur avendo una protesi di legno alla gamba destra, ci teneva tutti a bada con una voce minacciosa che ci metteva paura, brandendo di lontano il suo nodoso bastone peraltro mai usato.

Anche Paolino, che abitava vicino a una delle piazze del paese più frequentate da noi ragazzi, aveva risposto “presente” con allegria all’appello della maestra, mostrando tutta la vivacità che un bambino di sei anni sa sprigionare.

L’appello si era concluso senza i problemi che, a nostra insaputa, avevano colpito alcuni nostri coetanei che, in altre parti d’Italia, erano stati allontanati dalla scuola o danneggiati dalle leggi razziali emanate dal governo fascista sin dal 1938 . Noi non sapevamo niente di tutte queste cose che capitavano a molti chilometri dalla periferia del nostro paese.

Soldati tedeschi nell’atto di rimuovere la sbarra di confine, alla frontiera tra la Germania e la Polonia, il 1º settembre 1939

Così come non sapevamo che nel 1939 la Germania aveva invaso la Polonia e che alle proteste formali di Inghilterra e Francia la Germania aveva reagito invadendo quest’ultima e addirittura occupando Parigi. I travolgenti successi nazisti avevano spinto Mussolini ad allearsi con Hitler e a entrare in guerra contro Francia e Inghilterra per non rimanere escluso dai possibili vantaggi di una vittoria ormai ritenuta imminente.

Dopo un esordio abbastanza favorevole, l’impresa militare italiana contro i paesi alleati da qualche tempo cominciava a registrare qualche insuccesso. Le brillanti e inarrestabili operazioni della prima sorprendente fase di guerra che sembravano dover assegnare una vittoria repentina all’esercito tedesco, col quale il Governo italiano aveva stretto un’alleanza, erano state riequilibrate da una inevitabile azione di resistenza che andava gradualmente organizzandosi in varie parti d’Europa. Nonostante la disfatta subita in Grecia, la sconfitta patita fra le dune del deserto ad El-Alamein e la penosa odissea dei soldati italiani in Russia, la propaganda fascista continuava a prospettare come vicinissima ormai la fine della guerra con una scontata vittoria della Germania e dell’Italia.

In questa Italia ormai già concretamente provata dalla mancanza di viveri e di altri beni di prima necessità che scarseggiavano sempre di più, nell’anno scolastico 1942-43 noi bambini di sei anni fummo chiamati a frequentare la prima classe elementare. Si, fummo chiamati; come i militari alla guerra. Perché la cultura, e più specificamente la cultura fascista, faceva parte di quel complesso di doveri civici che il cittadino fascista sin da bambino doveva imparare ad osservare.

Ma queste cose noi non le sapevamo; erano troppo grandi per noi e forse troppo grandi anche per le nostre maestre che non ci parlavano assolutamente di leggi razziali o di guerra; tutt’al più le maestre chiedevano agli alunni se qualcuna delle loro mamme aveva delle uova o dell’olio da vendere: la guerra faceva sentire i suoi effetti anche nei nostri paesi ma soprattutto in città da dove le nostre insegnanti provenivano.

A scuola avevamo cominciato a fare le aste e i cerchietti.

Giuseppe era molto bravo, era capace di allineare le aste-tutte dritte- con una precisione che solo un bambino esperto, attento ed intelligente sapeva fare; Lino, un po’ svogliato, riusciva a riempire solo mezza paginetta in una mattinata; Paolino qualche giorno lavorava di buona lena, qualche altro giorno si lasciava prendere dalla malinconia, faceva poche aste e pochi cerchietti e poi si sbizzarriva a disegnare tante case e tanti soli: le case illuminate da soli grandi grandi lo affascinavano in maniera irresistibile. Ma la maestra lo richiamava alla composizione di aste e cerchietti che erano la base delle future letterine dell’alfabeto: e Paolino obbediva docilmente e ricominciava a tracciare aste e a comporre cerchietti il più rotondi possibile. Pasquale invece non ne azzeccava proprio una: le sue aste erano tutte storte, sembrava che le indicazioni impartite dalla maestra producessero risultati completamente opposti, anche i cerchietti sembravano corallini dalle forme più svariate messi insieme per formare strani mosaici di cui solo lui conosceva l’arcana ispirazione e il misterioso significato perché un significato ce l’avevano. Giovanni si presentava un po’ timido e indifeso,introverso e di poche parole anche perché di parole diverse dalla lingua sarda ne conosceva proprio poche.

Noi non sapevamo, ma la guerra continuava con le sue distruzioni e le sue stragi; i tedeschi -sostenuti dagli alleati italiani-stavano conseguendo significativi successi nella loro “campagna di Russia”: dopo un’avanzata non priva di ostacoli ma comunque inarrestabile arrivarono alle porte di Stalingrado e si apprestavano già a occuparla quando i sovietici opposero una disperata e lunga ma valorosa resistenza.

La maestra, a ottobre inoltrato,cominciò a farci scrivere le prime letterine dell’alfabeto: dopo l’esercizio prolungato con aste e cerchietti, non era possibile rimandare all’infinito le esercitazioni sulle lettere dell’alfabeto e anche se il lavoro diventava sempre più difficile occorreva imparare a ricopiare dalla lavagna ciò che la maestra di giorno in giorno ci proponeva: prima le vocali e poi ad una ad una le consonanti dalle più semplici alle più difficili come se per noi bambini esistessero consonanti più facili e la trascrizione di quelle letterine non fosse sempre una fatica improba. Non tutti gli alunni riuscivamo a imparare negli stessi tempi: c’era chi aveva già imparato a scrivere tutte le letterine e chi ancora annaspava con fatica fra aste e cerchietti.

Intanto si instauravano le prime amicizie non più solo con i compagni di strada ma anche con ragazzi che provenivano dalle parti più lontane del paese. Un giorno due squadre di ragazzi decidemmo di incontrarci in Piazza Tola (era la piazza dove si svolgeva il mercatino del martedì che già da allora era sistemata con mattonelle quadrate) per sfidarci a Italia-Francia, un gioco che praticavamo con molta frequenza da bambini. Non occorrevano attrezzi particolari:bastavano buone gambe e grande agilità nella corsa. Si divideva la piazza in due parti uguali usando la pipì per fare la linea di demarcazione. Il gioco era semplice:si formavano due squadre ciascuna con una bandiera che veniva fissata nella parte più lontana dalla linea mediana e i ragazzi delle due squadre avversarie vincevano se riuscivano a prendere la bandiera della squadra nemica e riportarla nel proprio campo. Se nell’azione di conquista della bandiera avversaria si veniva acchiappati da un ragazzo dell’altra squadra si rimaneva prigionieri sino a quando non arrivava la liberazione da un compagno della propria squadra.

La sera imbruniva troppo presto e il pensiero correva immediatamente alla scuola. O meglio: alle aste, ai cerchietti,alle letterine dell’alfabeto ai numeri. Mai che le maestre ci parlassero della guerra. Se non nei termini che la propaganda del regime imponeva. E cioè informandoci in maniera molto superficiale e approssimativa sulle azioni di guerra che andavano bene per l’Italia e soprattutto sul valore degli italiani che si stavano comportando da eroi. Eppure gli effetti di questo doloroso evento che interessava tutti direttamente o indirettamente li pativamo anche noi bambini, perché tutti ci rendevamo conto di persona che scarseggiavano i viveri, che molti dei nostri padri o dei nostri zii erano partiti per la guerra. Improvvisamente un giorno cominciammo a sentire l’urlo delle sirene:prima con cadenza sporadica ma col passare delle settimane sempre con maggior frequenza. Il suono particolare delle sirene veniva diffuso da più altoparlanti sistemati in punti strategici del paese: per i militari significava che dovevano correre alle armi, per i civili la sirena era il segnale che suggeriva di raggiungere velocemente il rifugio più vicino:spesso ci si rannicchiava negli scantinati nella convinzione che sotto il livello della strada la sicurezza fosse maggiore. Ogni volta sentivamo un tuffo al cuore per la paura che capitasse la cosa più banale e verosimile: e cioè che le bombe degli aerei rombanti nel cielo distruggessero le nostre case; erano soprattutto le angosce dei nostri genitori a trasferire su di noi paure che la nostra età dell’incoscienza non ci avrebbe mai fatto provare.

La prima battaglia di El Alamein

Noi faticavamo nell’apprendere lettere e numeri mentre alcuni nostri compaesani chiamati alle armi subivano una cocente disfatta fra le dune del deserto a El-Alamein. Qualcuno dei compagni di scuola riferiva episodi di guerra raccontati nelle lettere provenienti dai campi di battaglia. Un giorno Giovanni ci raccontò -molto scosso e parlando in sardo per non perdere il filo del discorso- che un suo zio era stato ferito a una gamba, in maniera non grave, proprio nella sanguinosa battaglia di El-Alamein, ci disse inoltre che forse lo avrebbero rimandato a casa per un periodo di convalescenza.

Anche in Russia le azioni militari non andavano più tanto bene e stavolta le notizie di prima mano ci vennero date dalla maestra: ci raccontò che un suo cugino partito per la Russia aveva avuto un piede congelato e che non sapeva se sarebbe riuscito a ricuperarlo:era molto probabile un’amputazione dell’arto. Questa notizia la maestra l’aveva appresa dal cappellano militare che l’aveva riferita al parroco del paese. I soldati infatti non potevano raccontare direttamente ai familiari episodi che in qualche modo mettessero in cattiva luce l’operato del Regime. Stavolta, e finalmente, la scuola si era tolta di dosso l’orpello della propaganda e aveva raccontato un brandello di verità sui tragici fatti che stavano avviluppando l’Italia,l’Europa e il mondo intero.

Ma noi avevamo la nostra piccola grande missione da compiere: imparare a leggere, scrivere e far di conto. Anche perché se la guerra fosse continuata avremmo dovuto leggere le lettere dal fronte alle vecchie nonne analfabete desiderose di conoscere le notizie dei loro figli in guerra.

Figli della lupa

Una mattina la maestra ci annunciò che entro qualche giorno avremmo dovuto “ritirare” le divise di “Figli della lupa” per partecipare a una manifestazione in piazza Umberto. Il 4 Novembre,anniversario della vittoria,alla presenza delle autorità più rappresentative del paese il Podestà,il Segretario del PNF, il Direttore Didattico, il Maresciallo,si tenne una parata solenne come non avevamo mai visto nel paese; assomigliava molto a una delle tante esercitazioni militari che regolarmente si svolgevano nella stessa piazza: ci allinearono in fila per cinque,ci fecero marciare come maldestramente riuscivamo a fare e poi – dopo aver risposto ai discorsi del podestà col saluto fascista- ci lasciarono liberi di muoverci autonomamente. Ma le nostre reazioni furono le più strane: chi correva agitando il pomponcino che pendeva dal berretto,chi piangeva “perduto” in mezzo alla folla cercando la propria madre, chi si agitava e gridava impazzito dalla gioia,chi era rimasto impietrito in mezzo alla piazza in attesa di qualcuno che lo riportasse a scuola. La maestra si era attardata a conversare con le autorità e a programmare future manifestazioni. Poi, ci radunò al centro della piazza e in fila per due, ci fece rientrare a scuola.

Verso Natale i ragazzi che avevano dimostrato più propensione alla proposta della scuola cominciavano già a ricopiare e comporre le prime sillabe mentre ancora parecchi compagni facevano fatica con aste e cerchietti o con le letterine da ripetere per pagine intere.

Si profilavano ormai due o tre gruppi di abilità differenziate riuniti in un’unica classe. D’altronde era un fenomeno inevitabile dal momento che le provenienze degli alunni erano le più differenti:

c’erano bambini provenienti da famiglie povere e deprivate che non avevano avuto l’opportunità di esercitare in nessun modo una manualità fine, preliminare all’uso della matita prima e in seguito della penna . C’erano invece degli alunni i cui genitori erano più “acculturati” o più coscienti dell’importanza della scuola, avevano già insegnato ai propri figli a impugnare correttamente una matita e a tracciare le prime aste. Non bisogna dimenticare infatti che per i primi tre o quattro mesi di scuola per la scrittura di aste e lettere si faceva uso esclusivo della matita per esercitare la mano (solo la destra naturalmente: i mancini dovevano seguire una rigorosa autocensura) prima di passare all’uso della penna con l’inchiostro che spesso era la causa di macchie involontarie e scarabocchi legati all’inesperienza ma che tuttavia non ci impedivano di prendere le punizioni previste per i distratti e i pasticcioni.

Alle fatiche della scuola noi ragazzi cercavamo di alternare i giochi più frequenti della nostra fanciullezza: i cavallini di canna sui quali ci sbizzarrivamo in corse sfrenate, i carri a buoi costruiti con le pannocchie sgranate del granoturco che erano belle e vincenti se apparivano riccamente ornate di ninnoli e pagliuzze colorate, i pifferi ricavati dalle canne che emettevano suoni differenti l’uno dall’altro a seconda delle dimensioni,le trottole di legno che erano ben fatte se ruotavano a lungo e silenziosamente su se stesse (“sa morrocula est lebia”) senza spostarsi traballando scompostamente . C’erano due o tre artigiani del legno che avevano coltivato uno spirito ludico particolare ed erano molto bravi a lavorare al tornio queste opere d’arte-giocattolo.

Privilegiato su tutti rimaneva comunque il gioco del calcio. I militari avevano formato una squadra di calcio per ogni battaglione e quindi tutte le domeniche due squadre di calcio militari disputavano una partita nel modesto campo sportivo comunale. Avevamo imparato i nomi dei più famosi militari-calciatori e li avevamo assegnati ai più bravi dei ragazzi-giocatori: Antonio si chiamava Cisotto, Giuseppe si chiamava Rodari, Giommaria si chiamava Lotronto, Salvatore si chiamava Bovoli e così anche noi avevamo formato le nostre squadrette di calcio che si divertivano a giocare non con palloni di pelle o di gomma ma con palle ricavate utilizzando vecchie calze imbottite di stracci. Il gioco con questo tipo di palla per quanto coinvolgente era anche pericoloso perché dovevamo giocare rigorosamente scalzi (non tutti possedevano le scarpe) e , nel calciare, ci si esponeva non di rado a colpire con l’alluce il pavimento della piazza e l’unghia si distaccava dalla carne procurandoci un dolore all’inizio insopportabile: nessuno – però – si azzardava a piangere, si cercava di metterci riparo applicando alla ferita un po’ della nostra stessa pipì come i compagni più grandetti e più esperti ci avevano insegnato a fare.

Per un po’ si rimaneva a bordo piazza e poi si riprendeva a giocare cercando di calciare col piede sano. A casa non bisognava dire niente del “piccolo” incidente perché altrimenti al dolore patito si aggiungevano le punizioni familiari.

Alla fine di Marzo, poco prima delle vacanze pasquali, la maestra ci fece fare il primo dettato: si trattava di verificare se riuscivamo a scrivere delle parole di senso compiuto che la maestra scandiva abbastanza lentamente. Naturalmente non tutti riuscirono a fare per benino questo lavoro non facile: la maestra fu quindi costretta a dividerci per fasce di livello e farci eseguire dei lavori differenziati a seconda delle abilità e delle conoscenze raggiunte. Si procedette nello stesso modo anche per l’apprendimento delle operazioni aritmetiche più semplici, l’addizione e la sottrazione: ad alcuni piaceva particolarmente maneggiare i numeri e verificare – come avviene con le palline- che aggiungendo lo stesso numero a un numero base si otteneva il doppio: la cosa era persino divertente e poi i numeri sono solo dieci, quindi tutto sembrava più facile.

Intanto i battaglioni tedeschi in Russia, dopo i primi successi, cominciarono a registrare una sconfitta dietro l’altra sino a subire una disfatta totale: l’inverno russo aveva dato una mano al proprio esercito e come aveva interrotto la marcia alle truppe napoleoniche aveva arrestato anche l’esercito tedesco costretto ad arrendersi dopo la sanguinosa battaglia di Stalingrado. La notizia del tracollo tedesco si diffuse immediatamente per il mondo e anche in Italia i partiti contrari al regime rinnovarono il patto unitario antifascista mentre nelle grandi fabbriche del Nord venivano promossi una serie di grandi scioperi rigorosamente vietati dalle leggi fasciste sul lavoro. Dovunque si diffondevano fermenti di ribellione contro l’oppressione nazi-fascista. In Polonia gli ebrei del ghetto che avevano subìto sino ad allora una durissima repressione con grandi perdite di vite umane, si ribellarono ai nazisti che ancora opprimevano gli ebrei di Varsavia.

Nel nostro paese come ogni anno,si rinnovavano i riti della Pasqua: – sos sepuschos, s’iscravamentu,sa pruzzessione ‘e sos giudeos, sa missa ‘e gloria, su lunis de pascha -.E finalmente anche per noi bambini la carne d’agnello per il pranzo “de Pascha ‘e Abrile”,il pane fresco arricchito con mille ricami, “su cozzulu ‘e s’ou”, sas tiriccas, sas casadinas, e tanti frutti secchi conservati nei cassettoni avevano fatto la loro “miracolosa” comparsa nelle tavole pasquali.

Arrivata la primavera noi ragazzini potevamo trattenerci più a lungo per le piazze a giocare a Italia-Francia o a “pallone”; non di rado ci riunivamo in gruppi e andavamo per le campagne vicine a cercare “pabanzolu” o i nidi degli uccellini che ormai cominciavano a nascere: l’abilità di noi bambini consisteva nel sottrarli al loro ambiente naturale che era il loro nido e farli crescere in casa in un ambiente del tutto alieno alla loro natura: il tentativo finiva miseramente dopo pochi giorni. Le cose andavano meglio quando si riusciva a prendere qualche uccello di dimensioni più grandi, una gazza, un’upupa, una cornacchia: allora l’allevamento artificiale durava anche qualche settimana.

Con l’arrivo della bella stagione l’urlo delle sirene era diventato sempre più frequente e asfissiante anche se ormai ci avevamo fatto l’abitudine. Non poche famiglie, però, avevano preso la drastica decisione di “sfollare” in campagna nella convinzione che lì potessero corrersi meno pericoli. In campagna, però, mancavano le comodità più elementari e indispensabili e allora dopo qualche giorno decidevano di affidarsi all’ineluttabilità del destino o alla protezione della Madonna e decidevano di rientrare nelle proprie case.

L’anno scolastico volgeva ormai al termine, fra un po’ avremmo conosciuto l’esito delle nostre fatiche e promossi o bocciati ci saremmo potuti dedicare a tempo pieno ai nostri giochi in piazza e alle nostre avventure in campagna. Qualcuno dei compagni avrebbe continuato ad aiutare i propri genitori nei lavori dei campi come aveva fatto saltuariamente durante tutto l’anno scolastico: infatti noi non riuscivamo a capire perché ogni tanto Pasquale si assentava da scuola, le sue assenze coincidevano con i periodi di maggior lavoro nella campagna.

Alla fine dell’anno non tutti fummo promossi: Giuseppe era stato promosso con votazione brillante, Paolino era stato promosso a frequentare la seconda classe, Lino era stato pure lui promosso anche se con qualche difficoltà,Giovanni promosso, Pasquale, rimandato,avrebbe dovuto ripetere la prima classe nella speranza di fare meglio in futuro.

Per la maggior parte di noi erano iniziate le vacanze: le giornate erano diventate più lunghe finalmente avremmo potuto riprendere i nostri giochi in Piazza Tola, saremmo ritornati a cercare nidi a tempo pieno, avremmo continuato a vivere le nostre avventure nelle campagne più vicine al paese. Naturalmente eravamo ignari di quel che stava accadendo lontano dai nostri giochi nei teatri della guerra che si stava combattendo in vari punti del mondo.

Sbarco in Sicilia

In Italia il 10 Luglio le truppe alleate (americane,inglesi,canadesi) sbarcarono in Sicilia,occuparono l’isola dando avvio alla campagna d’Italia. Come ho già detto noi ragazzi non avevamo la percezione esatta di quelli che erano gli effetti della guerra se non per la penuria dei viveri e dell’abbigliamento e per le sporadiche e frammentarie notizie che sentivamo dagli adulti.

Qualcosa però sembrava esser cambiata anche per noi bambini: sentivamo sempre più spesso l’urlo delle sirene che ci informavano di possibili imminenti pericoli: immediatamente noi ragazzi scomparivamo dalle strade e andavamo a nasconderci nei rifugi che ciascuna famiglia si era procurato. Quasi sempre tutto finiva col passaggio sui nostri cieli di uno o più bombardieri che dopo averci spaventato proseguivano la loro marcia andando a scaricare altrove il loro carico di morte. Tante volte avevamo assistito a questi scenari al punto che ormai ci si era abituati ad entrare e uscire dai rifugi come se giocassimo a nascondino.

Un giorno però, verso le dieci del mattino, capitò qualche cosa di diverso, di mai visto, che attirò immediatamente l’attenzione di noi ragazzi: sentimmo di lontano un crepitare di mitragliatrici e un guizzare abbagliante di fulmini nel cielo assolato del 30 luglio: una battaglia furibonda fra aerei inglesi e tedeschi si era scatenata d’improvviso. Un aereo inglese ( lo sapemmo in seguito) aveva colpito con le sue mitragliatrici un aereo tedesco che era precipitato in fiamme lanciando nel cielo delle lingue di fuoco e un’improvvisa e densa scia di fumo. Per noi la guerra erano i militari ospitati nelle chiese sconsacrate di Monserrato e del Carmelo e in alcune case private,erano i soldati che passavano per il Corso intruppati per andare a fare esercitazioni al poligono di tiro ricavato in un angolo del vecchio campo sportivo, era il comunicato che la radio collocata in una casa del Corso (“in su Bigliasdhu”) tutte le sere diffondeva con la voce gracchiante e carica di enfasi della radio del regime.

Quel giorno però ci prese una strana eccitazione , volevamo andare quanto prima a vedere l’aereo precipitato ma soprattutto volevamo andare a vedere un aereo da vicino. E in effetti il passa parola tra ragazzi durò pochissimo: nel giro di mezz’ora centinaia di bambini – compresi Tommaso, Silvio, Paolino – ci eravamo radunati nelle vicinanze dell’aereo precipitato. Non potevamo avvicinarci, come avremmo voluto, perché una cinta imponente di carabinieri e di militari dell’esercito impedivano a chiunque di avvicinarsi al relitto.

Per quel giorno ci bastò vedere di lontano dei rottami fumanti e un odore acre di qualcosa di insolito che non apparteneva agli odori che ci erano familiari come il fumo delle stoppie bruciate.

Apprendemmo più tardi che due dei piloti tedeschi erano morti e altri due erano rimasti gravemente feriti. Rimanemmo a lungo nel luogo dell’incidente cercando di interpretare tutti i movimenti che vedevamo di lontano, ma per quel giorno non fu possibile avvicinarci:ci saremmo ritornati l’indomani.

La notizia dell’accaduto si era propagata in un attimo per tutto il paese e già le nostre mamme avevano deciso di prendere contromisure adeguate per impedire che i propri figli, spinti dalla curiosità e dal desiderio di scoprire, rischiassero di raccogliere qualche residuato bellico che potesse rappresentare un reale pericolo per noi ragazzi. Paolino aveva raccontato tutto a casa e la mamma, zia Maria Teresa, aveva immediatamente capito che doveva impedire al figlio di ritornare a visitare l’aereo distrutto.

Intanto fra noi ragazzi erano cominciate a circolare storie fantasiose: dalla carcassa dell’aereo si potevano prendere paracadute interi o stracciati, carte topografiche,brandelli di pelle da utilizzare per le fionde, pezzi di vetro di carlinga con i quali si potevano costruire anelli, posate o altri souvenir di varia natura come avevamo visto fare ai militari durante le loro ore di riposo; quelli che ritenevano di essere più fortunati degli altri avevano già raccontato di aver trovato delle munizioni che potevano costituire la base per nuovi giochi. Che certamente nascondevano anche insidie e pericoli gravi che noi ragazzi non riuscivamo a percepire: come novelli Ulisse, noi volevamo scoprire cose nuove, anche rischiando di patire conseguenze imprevedibili. La mamma di Paolino, molto preoccupata dal racconto del figlio e dalla sua irrefrenabile curiosità, utilizzando la grande paura e il buon senso delle mamme, tolse gli abiti al figlio per impedirgli di uscire per strada in un suo momento di distrazione. Quella sera tutto filò tranquillo. Paolino dovette rassegnarsi a trascorrere la serata in casa, in mutandine, cercando di colpire col tiralastico qualche uccellino che aveva la ventura di posarsi sull’albero di fico del cortile. Qualche amico, però, parlandogli dalla strada lo incuriosiva e lo invogliava ad aggirare in qualche modo la segregazione forzata; gli raccontava che Silvio, Piero, Angelo, Tommaso erano stati nel luogo del disastro aereo e avevano ricuperato bei pezzi dal velivolo precipitato, persino qualche cartuccia di mitraglia che poteva servire a inventare dei fuochi d’artifizio mai visti prima. Questo colloquio attraverso le grate della finestra che dava sulla strada aveva eccitato la fantasia di Paolino che non vedeva l’ora di fare anche lui un nuovo personale sovralluogo nel sito dell’incidente aereo e di verificare di persona l’efficacia delle munizioni trovate.

Per quel giorno Paolino si dovette rassegnare ad andare a letto senza uscire di casa. L’indomani, di buon mattino, Paolino era già sveglio. Ma la madre ricordando quel che era capitato il giorno prima e soprattutto preoccupata che Paolino si lasciasse “travolgere” dalla curiosità, affidò al figlio una commissione diversiva che lo occupasse per qualche ora.

-”Paolino-gli disse la madre-vai dal macellaio a far la fila perché più tardi verrà tua zia a comprare la carne”. La commissione durò solo pochi minuti perché il macellaio non era ancora arrivato dal mattatoio e la macelleria era ancora chiusa. Tutto da rifare. Zia Maria Teresa raccomandò ancora a Paolino di non allontanarsi da casa e lui effettivamente ubbidì. Ma un pensiero martellante gli assillava la mente. Andando dal macellaio e ritornando aveva visto un assembramento di compagni che, vociando, armeggiavano intorno a qualche cosa di misterioso,certamente qualche pezzo dell’aereo precipitato,che lui non vedeva l’ora di scoprire. Il desiderio di raggiungere il gruppetto di amici era ormai irresistibile.

E infatti,piano piano,studiando attentamente i movimenti della madre, prima uscì da casa e poi, passo dopo passo, raggiunse il gruppetto degli amici che erano già a buon punto nel “lavoro” di smontaggio di una cartuccia di mitraglia inesplosa che era caduta durante lo scontro aereo del giorno prima. Tommaso, che era il più anziano di tutto il gruppetto,dopo aver rastrellato un po’ del materiale dell’aereo disperso in un vasto raggio di campagna, seduto sul gradino d’ingresso della casa,aveva cominciato l’opera di demolizione ma il lavoro non appariva tanto facile: occorrevano più mani per poter ricavare il maggior numero di pezzi riutilizzabili. Altri due dei fratelli di Tommaso, Silvio e Piero, guardavano incuriositi il lavorio del fratello maggiore che si ingegnava in tutti i modi a smontare quei giocattoli di morte. Intanto Paolino aveva raggiunto il gruppetto proprio nel momento in cui occorreva una mano per tenere dritta la cartuccia che Tommaso non riusciva a gestire compiutamente.

-”Paolì, mantieni la cartuccia”. Paolino non avrebbe mai pensato che potesse spettare proprio a lui “l’onore” di partecipare attivamente a un “gioco” così importante. Che durò solo un attimo.

Perché la martellata di Tommaso contro il chiodo puntato sul detonatore provocò una grandissima esplosione . E poi fu buio per tutti. Il padre e la madre di Tommaso, che erano nella stanza accanto,accorsero d’istinto, gridarono disperati chiedendo aiuto; i corpi dei ragazzi presenti erano tutti imbrattati di sangue, non si sapeva di chi, ma c’era tanto sangue dappertutto. Immediatamente fu un accorrere di gente che voleva fare qualche cosa ma non sapeva che cosa tanta era la confusione e la paura che si erano create. Paolino, che sembrava aver riportato i danni maggiori, giaceva lì svenuto. Ma anche Tommaso, Silvio, Piero in stato confusionale ricoperti di sangue erano stati catapultati a qualche metro di distanza dal gioco-bomba. Qualcuno si attivò a caricare il corpo dilaniato di Paolino su un carretto che passava e trasportarlo all’ambulatorio del medico. Zia Maria Teresa che aveva sentito lo scoppio e visto il grande trambusto che si era creato intorno cercò immediatamente il figlio: Paolino era scomparso. Col cuore in agitazione per un brutto presentimento che le aveva attraversato più volte la mente, uscì di casa per sapere e immediatamente ebbe una tragica conferma quando dai capannelli che si erano formati cominciò a sentire un nome:”Paolino, Paolino, Paolino è ferito”- “Ma ci sono altri feriti!” – “Chi sono gli altri feriti?”- E così un incalzare di domande sempre più stringenti e angoscianti intercalate da un pianto disperato e impotente. “Dov’è mio figlio? Chi l’ha visto? Com’era? Dove lo hanno portato?” Il medico non era attrezzato a fronteggiare situazioni così traumatiche: ripulì con alcool il sangue della mano sinistra spappolata, tolse le tante schegge che gli si erano conficcate in varie altre parti del corpo e poi fasciò tutto con lunghe bende in attesa di un ulteriore intervento ricostruttivo.

Cominciò per Paolino una vita diversa: la mano sinistra amputata delle dita era ridotta a un grumo che da quel momento gli avrebbe impedito di operare agevolmente con entrambe le mani. Il resto dell’estate la trascorse mezzo fasciato,seduto sui gradini di casa, docile e ubbidiente alle indicazioni della mamma che con pazienza e amore gli ripuliva e fasciava tutti i giorni le ferite che tardavano a rimarginarsi. Intanto – anche se noi non sapevamo quasi niente erano accaduti dei fatti politico-militari così rilevanti che sarebbe stata stravolta la vita della nazione e conseguentemente anche la vita delle nostre famiglie e di ciascuno di noi.

Nella notte fra il 24 e 25 Luglio 1943 il Gran Consiglio del PNF aveva votato la sfiducia a Mussolini che immediatamente venne fatto arrestare per disposizione del Re Vittorio Emanuele III. Il Re affidò l’incarico di capo del Governo al Maresciallo Pietro Badoglio. Il quale dopo aver condotto trattative segrete con gli Alleati angloamericani,” riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria” costituita dall’alleanza anglo-russo-americana,aveva chiesto l’armistizio che venne reso pubblico l’8 settembre 1943. In paese la notizia venne diffusa, con la solita enfasi, dalla radio del Corso e a noi ragazzi venne spiegato che la guerra era finita. In effetti accadde che il Re e il Governo fuggirono nell’Italia Meridionale già liberata dagli Alleati e quell’episodio che a noi venne presentato come la fine della guerra, fuori dalla Sardegna, nel resto d’Italia, divenne una furibonda e sanguinosa guerra di resistenza alle truppe Tedesche già nostre alleate- che ritirandosi verso il Nord distruggevano e uccidevano senza pietà e discriminazione alcuna.

Il 1°Ottobre del 1943 l’anno scolastico non iniziò né per Paolino né per tutti gli altri bambini: la scuola rimase chiusa. All’inizio fummo contenti delle vacanze prolungate poi, però, a mano a mano che passavano i giorni assolati dell’autunno e arrivavano le prime piogge cominciammo a sentire dentro di noi una sorta di tristezza e con essa anche un inspiegabile desiderio di ritornare a scuola.

Non vedemmo “tiu Giuanne su bidellu” agitare il suo bastone, aspettammo invano la maestra alta alta, non incontrammo Giuseppe, Lino, Giovanni, Pasquale, Paolino che avevano saputo anche loro dell’imprevisto contrordine: avremmo continuato le vacanze chissà per quanto altro tempo. La scuola era stata trasformata in ospedale militare. Anche noi cominciavamo a patire gli effetti della guerra in maniera sempre più pesante: la mancanza di viveri, di abbigliamento, le ferite dei compagni rimasti mutilati dagli ordigni militari usati come giochi, e adesso anche la chiusura delle scuole.


Meriggio – Poesia di G.B.


Nelle ore calde del meriggio

mi ritrovo sulla scogliera

ad ascoltare il mare

rapito dal fluire delle ode

che cantano come il tuo sorriso.

Rivedo

i tuoi occhi splendenti,

fuochi notturni che brillano

come stelle nel firmamento.

Rivedo

il tuo incedere flessuoso

e mi riempie di emozioni,

che assaporo lentamente

come sabbia nella clessidra.

Rivedo

la mia seconda giovinezza

che trova il tuo braccio

e corre insieme su sentieri scoscesi.

 E Sento

che con te riacquisto la serenità

dei giorni passati

e faccio pace  con me stesso

felice nella realtà che mi circonda.

g.b.


Il senso della vita – testo di G.B.

 

 

 

 

 

Il vecchio Thimor ,

nella sua lunga vita ha molto

viaggiato così come ha amato.

Ora a riposo,

nella casa che affaccia sul porto

guarda le barche ormeggiate;

altre che passano,

solcano  onde spinte dalla brezza di ponente,

verso destinazioni ignote,

al nocchiero ricordano i suoi viaggi,

che la memoria silenziosa gli riporta.

Il suo sguardo ferito  dai

bagliori di fuoco del tramonto

trova quiete sul mare di perla.

lontano, nel tepore salmastro della sera

lontano qualcuno canta,

e il pensiero riflesso

rincorre i timori dell’anima;

cirri  mutevoli,

impetuosi in  mare aperto

dilatano la sofferenza.

Rigato è il volto di pietra

che la bruma avvolge con

innocente carezza.

Scevro di coscienza

è il dilemma

che rovista l’arcano .

La vita rivive nella memoria

di ciò che è stato,

o il senso della vita è altra cosa ?!.

G.B.

La deposizione del Venerdì Santo – testo di Franco Simula


Da alcuni anni ormai il numero dei confratelli incaricati di provvedere all’adempimento dei riti previsti per la Settimana Santa si riduceva sempre più di numero; ne erano rimasti solo due, vecchietti, pieni di acciacchi e di dolori e pertanto impossibilitati a compiere in sicurezza tutte le operazioni che il rito pasquale richiedeva, compresa la salita e la discesa dalla scala appoggiata alla croce del Cristo crocifisso. Già da alcuni giorni il parroco, in ambasce, ci parlava del problema prospettando anche l’eventualità di un Venerdi Santo senza la classica e tanto attesa cerimonia de “s’iscravamentu”. D’altronde una Confraternita non si poteva improvvivare da un giorno all’altro: occorrevano le vesti , i nastri, i cappucci adatti per ciascuno e soprattutto un’adeguata preparazione della cerimonia che doveva procedere in sintonia con la narrazione della passione del Cristo che il predicatore raccontava dal pulpito rispettando anche lui alcuni passaggi obbligati. A questo punto il parroco azzardò una proposta tanto inaspettata quanto improbabile: chiese a me e a Mario Faedda ( che qualche anno dopo diventò il Notaio M. Faedda) se eravamo disposti a interpretare la parte di almeno due dei discepoli che assistevano Gesù nelle tragiche ore della sua Passione e cioé Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo. Secondo il racconto evangelico i due raccolsero il corpo esanime di Cristo e lo deposero nel sepolcro. La proposta ci colse di sorpresa perché conoscevamo, si, il racconto evangelico ma ci mancava un minimo di coordinamento col predicatore del venerdi santo. Che era il giorno successivo. Eravamo due ventenni giovani e disinvolti e con incoscienza giovanile decidemmo di interpretare la sacra rappresentazione.
Ci presentammo qualche ora prima della cerimonia perché dovevamo prendere un minimo di confidenza con gli abiti di foggia completamente diversa dagli usuali, lunga tonaca bianca tipica delle confraternite, copricapo simile a una mitra vescovile, folta barba applicata al mento ed esposti su un ampio bancone logorato dall’uso e dal tempo tutti gli attrezzi (martello, tenaglie, chiodi, corona di spine) che avremmo dovuto maneggiare di lì a qualche ora per la deposizione del Cristo: Mario avrebbe impersonato Giuseppe D’Arimatea, io Nicodemo. La cerimonia avrebbe avuto inizio all’imbrunire. Il venerdi santo le campane rimangono mute, solo i crepitacoli annunciano l’inizio della cerimonia col loro rumore gracchiante.
La chiesa, come tutti gli anni, era gremita da una folla delle grandi occasioni.
A interrompere il bisbiglio diffuso che si percepiva nella chiesa, ieratica, comparve sul pulpito la figura di un sacerdote che cominciò a raccontare la storia della passione, crocifissione e morte di Gesù. Da questo momento i due nuovi confratelli, seduti ai piedi della croce collocata per l’occasione, dovevamo stare attentissimi allo svolgimento della narrazione perché a un certo punto saremmo diventati gli esecutori materiali della deposizione dalla croce del Cristo morto.
Il sacerdote riferì con grande partecipazione, a tratti con parole che inducevano alla commozione, momenti particolari della vita di Gesù e infine la dolorosa salita al Calvario, la Crocifissione, la Morte. Finalmente era arrivato il momento della nostra partecipazione attiva alla cerimonia. Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo cominciarono a salire le scale appoggiate ai due bracci della croce. Il sacerdote, rivolgendosi alternativamente ai due confratelli, li invitava a liberare Gesù dagli attrezzi che erano stati strumento atroce di morte. “ Tu Giuseppe D’Arimatea, libera dal chiodo la mano destra di Gesù che tanto bene ha dispensato durante la sua vita terrena”. “E tu Nicodemo togli dal volto del Salvatore quella corona di spine che gli era stata conficcata come scherno per ché si era dichiarato Messia e Re Universale”.
Il medesimo invito fu rivolto ai due confratelli affinché togliessero i chiodi che avevano trapassato la mano sinistra e i piedi che avevano attraversato la Galilea dispensando un nuovo Verbo di pace e amore. “ Mostrate questi strumenti di morte al popolo pietoso e deponeteli nel grembo della Madre Addolorata che tante sofferenze ha dovuto patire assistendo alla crocifissione e morte del Figlio. Adesso deponete il corpo esanime di Cristo nel sepolcro-lettiga per Lui preparato e trasportiamolo tutti insieme nella chiesetta che lo ospiterà e dove rimarrà esposto al culto dei fedeli sino al prossimo anno quando riproporremo le celebrazioni religiose della Settimana Santa”.
Si era conclusa in maniera soddisfacente per tutti la nostra estemporanea partecipazione come improvvisati confratelli ai riti della Settimana Santa. Avevamo tenuto viva una tradizione che rischiava di interrompersi per mancanza di “attori”; avevamo risolto le ansie del parroco che non sapeva più che santo invocare; infine anche Mario ed io avevamo goduto di un imprevisto momento di notorietà che ci aveva fatto trascorrere una Pasqua ancor più felice.

Franco Simula


UNO SPLENDIDO PESCE D’APRILE di Franco Simula

Il 14 marzo 2018 segna una svolta nell’annosa questione dell’ambulatorio Parkinson. Convocati dal dott. Pintor e dal dott. Licheri, in rappresentanza dei direttori generali dott. Moirano e dott. D’Urso, al presidente e alla vicepresidente della nostra Associazione viene data lettura della convenzione intercorsa tra Ats Sardegna e l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Sassari per assicurare la gestione di un percorso clinico assistenziale a favore dei pazienti affetti dal morbo di Parkinson e malattie correlate. La convenzione prevede anche che l’Aou di Sassari metta a disposizione, a supporto dell’attività dell’Azienda Tutela della Salute, un dirigente medico neurologo, identificato nella persona di Kai Stephan Paulus, che da anni si occupa della malattia di Parkinson e pertanto rappresenta un punto di riferimento per i pazienti e le relative famiglie.

Si tratta, finalmente, di un ambulatorio dedicato esclusivamente al Parkinson e ai disturbi del movimento, mettendo fine allo stillicidio degli appuntamenti rimandati, quando si era fortunati, da un mese all’altro, e in mancanza di un intervento tempestivo, intasando il Pronto Soccorso o ricorrendo al ricovero. Con i costi umani ed economici che purtroppo molti di noi hanno dovuto sperimentare.

Il 14 marzo, dunque, ci viene annunciata la data di partenza del nuovo ambulatorio al 1° aprile. Possibile, proprio il 1°aprile ? che, guarda caso, è il giorno di Pasqua ? Non sarà un pesce d’aprile, o uno scherzo feroce? Nei vari incontri tra una nostra rappresentanza e i massimi dirigenti della Sanità della Sardegna, questi si sono mostrati sempre sensibili e disponibili ad affrontare e risolvere il disagio connesso alla mancanza dell’assistenza sanitaria continuativa indispensabile a pazienti cronici e con malattie neurodegenerative come la nostra. Tale disagio si era manifestato in svariate occasioni in conferenze stampa, articoli sui principali quotidiani e su alcune tv locali. Le assicurazioni dei Dirigenti Sanitari, però, non trovavano una concreta attuazione in tempi secondo noi ragionevoli, ma considerando tuttavia che il provvedimento che ci riguardava era solo uno delle centinaia di delibere da adottare, abbiamo tenuto viva la fiammella della speranza…e poi, ecco, finalmente l’ambulatorio Parkinson: veramente uno splendido pesce d’aprile.

TREMORE A RIPOSO di Kai S. Paulus

Tremore circuiti

Il tremore è un sintomo chiave della malattia di Parkinson e quello che viene maggiormente associato al Parkinson, ma ciononostante la sua patofisiologia rimane praticamente sconosciuta”.

 

Esordisce così il gruppo israeliano intorno a Nir Asch nella loro pubblicazione del 2020, una frase molto significativa, che sa quasi di rassegnazione, ma che descrive molto bene le difficoltà della comprensione, e quindi della gestione, del tremore; e stiamo parlando ‘solo’ del tremore, uno dei circa trenta sintomi parkinsoniani, che attendono altrettanti svelamenti e trattamenti efficaci.

[ma non demoralizziamoci, la scienza sta andando avanti…]

 

Andiamo per ordine: che cosa è il tremore?

Tremori

Il tremore viene definito come un movimento involontario, oscillatorio e ritmico, di una parte del corpo.

 

 

Ci sono tanti tipi di tremori, come elencati nella tabella qui di fianco:

 

 

Nella malattia di Parkinson si osserva principalmente il cosiddetto “tremore a riposo”, cioè il movimento involontario, oscillatorio e ritmico, che si presenta quando l’arto è completamente fermo, tipicamente distale, per es. una mano, ed esordisce ad un lato e nel tempo rimane comunque asimmetrico (a differenza, per es., del tremore essenziale, che invece si presenta durante una azione ed è sostanzialmente simmetrico).

 

 

Il tremore a riposo si presenta ad una frequenza relativamente lenta di 4-6 Hz (quello essenziale è più veloce, da 6 a 9 Hz), con il tipico movimento del “contare soldi” o “fare pillole” dato dall’oscillazione opposta di pollice e indice. Con l’inizio di una azione, di un movimento intenzionale, il tremore a riposo si ferma, mentre con la distrazione si accentua. Oltre alle mani, questo tremore può presentarsi anche ai piedi, alla lingua ed alla mandibola.

 

Qual è la causa del tremore a riposo?

[volete sapere veramente troppo]

 

L’origine esatta del tremore a riposo non si conosce ancora, ma ci sono diverse ipotesi, di cui la seguente appare attualmente quella più accreditata:

Cervello tremore

Principali strutture cerebrali coinvolte nella generazione del tremore a riposo

Come per gli altri sintomi motori del Parkinson, l’inizio di tutto è un deficit di dopamina nella sostanza nera che è responsabile di alterazioni dei circuiti dei nuclei della base (globo pallido, putamen, caudato) e conseguentemente le loro proiezioni verso il talamo, e quindi quelle verso la corteccia motoria. Il crocevia dei sistemi neuronali coinvolti nell’origine dei tremori (globo pallido interno, cervelletto, talamo, corteccia motoria) sembra essere il nucleo subtalamico come evidenziano studi di stimolazione cerebrale profonda che, indirizzati verso il centro subtalamico, riducono diversi sintomi parkinsoniani, tra cui, appunto, il tremore. Pare, inoltre, che la prevalenza di un tipo di oscillazioni neuronali su un altro tipo determini il diverso quadro clinico: più tremorigeno (oscillazioni theta) oppure più rigido (oscillazioni beta). Immaginiamoci tali oscillazioni semplicemente come un modo di comunicare, di trasmettere informazioni, delle cellule nervose. A causa del deficit di dopamina nelle cellule della sostanza nera, che modula i circuiti dei nuclei basali deputati alla scelta del movimento giusto, il sistema si altera e le oscillazioni non sono più in equilibrio; hanno così origine i vari sintomi parkinsoniani in base alla prevalenza di circuiti colpiti ed oscillazioni alterati.

Tremore circuiti

Semplificazione dei circuiti neuronali coinvolti nella malattia di Parkinson

Come si cura il tremore a riposo?

[ecco arrivati alla nota dolente: come si fa a curare qualcosa che non si conosce?]

 

Sappiamo che all’origine dei sintomi motori del Parkinson, e quindi anche del tremore a riposo, c’è un deficit di dopamina. E dagli studi di Hornykiewicz [vedi il nostro articolo “Oleh Hornykiewicz (1926-2020) padre della moderna terapia del Parkinson, del 24/01/2021] si conoscono i miglioramenti sintomatici grazie alla somministrazione di dopamina, o meglio, del suo precursore, la levodopa. Quindi, aggiungendo dopamina, in un modo o nell’altro si riducono i sintomi, e quindi anche il tremore, ma come esattamente funzioni non si sa. Per citare il gruppo di ricercatori intorno a Guglielmo Foffani: riusciamo a curare il tremore di un nostro paziente, ma non conosciamo esattamente il perché.

Appare sempre più evidente l’importanza dei pilastri della cura non farmacologica del Parkinson: il movimento e l’attività fisica, il buon riposo notturno e le emozioni positive, il divertimento. Il Parkinson si cura, ed anche bene, e per questo ci si avvale di terapie complementari, la arte-terapia, musicoterapia, coro, teatro, e sport-terapia. Ma noi della Parkinson Sassari lo sappiamo già da molto tempo.

Tremore

 

 

 

Fonti bibliografiche:

Asch N, Herschman Y, Maoz R, Auerbach-Asch CR, et al. Independently together: subthalamic theta and beta opposite roles in predicting Parkinson’s tremor. Brain Communication 2020; 2 (2)

Becktepe JS, Goevert F. Die Therapie essentieller Tremorsyndrome. Neurotransmitter 2020, 31 (7-8): 43-50

Cacabelos R. Parkinson’s disease: From Pathogenesis to Pharmacogenomics. Int Journal Molecular Science 2017, 18: 551-579

Chen W, Hopfner F, Becktepe JS, Deuschl G. Rest tremore revisited: Parkinson’s disease and other disorders. Translational Neurodegeneration 2017; 6: 16-24

Foffani G, Monje MHG, Obeso JA. Rest tremor in Parkinson’s disease: the theta and beta sides of the coin. Brain Communications 2020; 2(2)

PARKINSON E RESILIENZA COVID-19 di Kai S. Paulus

Resilienza 2

Chi è ammalato di Parkinson oppure vive insieme ad una persona con Parkinson (il “Portatore sano” come lo chiama Tonino Marogna) conosce fin troppo bene le sfide quotidiane per superare gli innumerevoli disagi causati dalla malattia, la mole di preoccupazioni, le angosce, le ansie, la depressione e le notti insonni. Per affrontare tutte quelle problematiche possono aiutare, almeno in parte, le raccomandazioni di una vita attiva con passeggiate e socializzazione, le visite mediche, la fisioterapia e l’associazione con le sue attività ricreative (gite, pranzi, cene, ecc.), terapeutiche (coro, musicoterapia, ginnastica, teatro, ecc.) ed informative (convegni, simposi, riunioni, sito internet, ecc.)

Poi è arrivato il Covid-19 e nulla appare come prima: le certezze, le abitudini, i punti di riferimento, tutto spazzato via dal tornado della pandemia della SARS-cov-2, con lockdown ed il nuovo tricolore rosso-giallo-arancione.

Ci stiamo proteggendo con mascherine, distanziamento sociale e vaccinazione. Ma cosa succede ai parkinsoniani ed i loro portatori sani, più fragili e provati?

Sono aumentate tutte quelle manifestazioni psicologiche che già prima erano difficili da tenere a bada: ansia, depressione ed insonnia, e con esse anche inevitabilmente le complicanze motorie con accentuazione dell’instabilità posturale, della rigidità, il freezing, ed il tremore. I media proiettano ininterrottamente numeri e statistiche, aggiornamenti, ipotesi e previsioni, con puntuali smentite; è diventato difficile e complicato ottenere appuntamenti per visite mediche ed accertamenti strumentali; le attività associative sono diventate virtuali e per parteciparci si deve familiarizzare con link, zoom, google meet, audio acceso al momento giusto.

Cosa fare?

Resilienza 1

Negli ultimi 12 mesi sono stati pubblicati tantissimi lavori scientifici che affrontano queste tematiche e già i loro titoli sono molto eloquenti:

 

Salute mentale, attività fisica e qualità della vita nella malattia di Parkinson durante la pandemia del covid-19 (Shalash et al., 2020)

L’impatto della pandemia del covid-19 sulla malattia di Parkinson: sofferenze nascoste ed opportunità emergenti (Helmich e Bloem, 2020)

Incidenza dell’ansia nella malattia di Parkinson durante la pandemia della malattia del coronavirus (covid-19) (Salari et al., 2020)

Malattia di Parkinson e covid-19: impressioni e coinvolgimento di pazienti e caregiver (Prasad et al., 2020)

I bisogni riferiti dai pazienti con malattia di Parkinson durante l’emergenza del covid-19 in Italia (Schirinzi et al., 2020)

L’impatto della pandemia del covid-19 sullo stress psicologico, sull’attività fisica e sulla gravità dei sintomi nella malattia di Parkinson (Van der Heide et al., 2020)

L’impatto del covid-19 e distanziamento sociale sulle persone con malattia di Parkinson (Feeney et al., 2021)

SARS-CoV-2 ed il rischio di malattia di Parkinson: fatti e fantasia (Merello, Bathia, Obeso, 2021)

I bisogni di pazienti parkinsoniani durante la pandemia del covid-19 in una zona rossa (Cavallieri et al., 2021)

Resilienza 2

 

Penso che queste pubblicazioni siano incoraggianti perché evidenziano che la ricerca ed i medici hanno individuato velocemente le nuove problematiche che il mondo parkinsoniano deve affrontare; vengono studiate le ricadute dei drastici cambiamenti sulla qualità di vita, su psiche ed anima, e vengono proposte strategie per correre ai ripari.

Intanto c’è la resilienza, la capacità di adattamento e di resistenza. Sicuramente può essere d’aiuto la consapevolezza che, se la persona parkinsoniana deve mettersi la mascherina, tutti se la devono mettere; se la persona parkinsoniana deve rimanere a casa, tutti devono rimanere a casa, e se essa deve fare triage, tamponi e vaccini, li dobbiamo fare tutti. Quindi, in questa pandemia siamo tutti uguali, ed ugualmente limitati nelle nostre azioni.

La pandemia ha messo a nudo tutte le debolezze del nostro modo di vivere, portando tanti disagi e soprattutto isolamento e solitudine. Ora stiamo rispolverando la solidarietà ed il rispetto reciproco, il senso civico, stiamo imparando ad utilizzare i nuovi mezzi tecnologici, da whatsapp alla posta elettronica, dalle videochiamate alle videoconferenze, fino alle piattaforme virtuali interattive. Tutto in neanche dodici mesi. Non male.

Certo, non è finita e le persone ammalate risentono particolarmente del distanziamento sociale e necessitano di tempo per riorganizzarsi, ma già si vede la luce alla fine del tunnel: le prenotazioni per visite ed esami stanno diventando più veloci, le vaccinazioni sono iniziate, e la nostra associazione sta per inaugurare una stagione ricca di novità ed eventi, a distanza ed in presenza. Ecco una delle novità che il covid-19 ci lascerà: avendoci abituati alle nuove tecnologie, queste potranno essere integrate nelle attività ricreative e terapeutiche e saranno utili per coinvolgere anche persone che abitano lontani oppure hanno difficoltà a recarsi sul posto, e saranno utili anche per rimanere comunque in contatto quotidianamente.

Volare si può …

Resilienza 3

Fonti bibliografiche:

Cavallieri F, Sireci F, Fioravanti V, Toschi G, et al. Parkinson patients’ needs during covid-19 pandemic in a red zone: a framework analysis of open-ended survey questions. European Journal of Neurology 2021

Feeney MP, Xu Y, Surface M, Shah H, Vanegas-Arroyae N, et al. The impact of covid-19 and social distancing on people with Parkinson’s disease: a survey study. Nature NPJ Parkinson Disease 2021, 7(10): 1-10

Helmich RC, Bloem BR. The impact of the covid-19 pandemic on Parkinson’s disease: hidden sorrows and emerging opportunities. Journal of Parkinson’s disease 2020, 10: 351-354

Kumar A. Experience of video consultation during the covid-19 pandemic in elderly population for Parkinson’s disease and movement disorders. Post grad Medicine Journal 2021, 97 (1144): 117-118.

Merello M, Bathia KP, Obeso JA. SARS-CoV-2 and the risk of Parkinson’s disease: facts and fantasy. The Lancet Neurology 2021, 20: 94-95

Prasad S, Holla VV, Neeraja K, Sursetti BK, Kamble N, Yadav R, Pal PK. Parkinson’s disease and Covid-19: perceptions and implications in patients and caregivers. Movement Disorders 2020, 35 (6): 912-914.

Salari M, Zali A, Ashrafi F, Etemadifar M, et al. Incidence of anxiety in Parkinson’s disease during the coronavirus disease (covid-19) pandemic. Movement Disorders 2020

Schirinzi T, Ceroni R, Liguori C, Scalise S, et al. Self-reported needs of patients with Parkinson’s disease during Covid-19 emergency in Italy. Neurological Science 2020

Shalash A, Roushdy T, Essam M, Fathy M, et al. Mental health, physical activity, and quality of life in Parkinson’s disease during Covid-19 Pandemic. Movement Disorders 2020

Van der Heide A, Meinders MJ, Bloem BR, Helmich RC. The impact of the Covid-19 pandemic on psychological distress, physical activity, and symptom severity in Parkinson’s disease. Journal of Parkinson’s Disease 2020, 10: 1355-1364.

 

PARKINSON: DIFFERENZE TRA DONNE E UOMINI di Kai S. Paulus

Signora Park

Signora Park

La Signora Parkinson” si intitolava il nostro memorabile convegno ad Alghero nel settembre 2019, e diverse volte ci siamo occupati delle differenze di genere nella malattia di Parkinson ed in particolare del ruolo della donna, sia come ammalata sia come ‘caregiver’. Studiare le differenze di genere è particolarmente importante, perché le differenze nella biologia, nella presentazione all’esordio, nei sintomi, nella risposta ai farmaci e nella gestione globale, possono avere un notevole impatto sulla progressione della malattia.

Archivio Signora Parkinson

Per un maggior approfondimento potete consultare i contributi sopra menzionati, mentre qui vorrei riportare alcuni brevi aggiornamenti della letteratura scientifica internazionale degli ultimi anni:

Epidemiologia:

Generalmente gli uomini si ammalano di Parkinson il doppio rispetto alle donne, la cui età di esordio però è lievemente inferiore.

Sintomatologia:

Nelle donne i sintomi motori iniziano mediamente più tardi con meno rigidità e più tremore, maggiore instabilità posturale con tendenza alle cadute e maggiori complicazioni alla terapia dopaminergica, mentre negli uomini si riscontra maggiormente il freezing (l’improvviso incollamento al pavimento delle gambe durante la camminata) e la camptocormia (flessione del busto in avanti con gambe leggermente flesse). Tra i sintomi non motori abbiamo una prevalenza di disfagia, ansia, depressione, fatica, anosmia, sudorazione profusa, costipazione e dolore nelle donne, mentre prevalgono scialorrea, alterazioni delle abilità cognitive, gioco d’azzardo, ipersessualità, disfunzioni sessuali, disturbi del sonno (agitarsi e parlare durante il sonno) e sonnolenza diurna negli uomini.

 

Fisiopatogenesi:

Ci sono differenze genetiche che riguardano i neuroni dopaminergiche che possono spiegare la maggiore suscettibilità maschile nello sviluppare il Parkinson. Pare che il genere influenzi l’esordio della malattia (percentuale, età, sintomi, gravità) ma solo sfumatamente la sua progressione. La minore incidenza di patologia e la minore gravità dei sintomi all’esordio nelle donne sono verosimilmente dovuti ad un effetto neuroprotettivo degli estrogeni; tali differenze però si perdono con l’avanzare della malattia.

Qualità di Vita:

Il Parkinson è progressivamente disabilitante e con il corso della malattia si riducono le autonomie e aumenta la necessita di assistenza. Per quanto riguardano le differenze statistiche, le donne ricevono meno supporto sociale e sono esposti a maggior peso psicologico, per diversi motivi: anagraficamente sono senza partner più degli uomini, e culturalmente hanno più compiti e responsabilità all’interno della famiglia il cui adempimento è reso sempre più difficile con crescente senso di colpa e di impotenza; il marito caregiver è meno coinvolto rispetto alla moglie caregiver che si trasforma in infermiera e mamma, con i rischi che ciò può comportare per la coppia. Una curiosa osservazione è che i mariti vengono accompagnati alle visite dalle loro mogli, mentre le donne da figli o assistenti.

L’argomento è tutt’altro che esaurito e ogni anno si moltiplicano gli studi sulle differenze di genere nel Parkinson. C’è ancora molto da comprendere sulla diversità di biologia, genetica, e risposta ai farmaci, essenziali per continuamente migliorare diagnosi, terapia, decorso, e specialmente la gestione globale di Su nemigu, del rapace infingardo.

Nuova Sardegna

Fonti bibliografiche:

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Cho BH, Choi SM, Kim BC. Gender-dependent effect of coffee consumption on tremor severity in de novo Parkinson’s disease. BMC Neurology 2019, 19: 194-203.

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OLEH HORNYKIEWICZ (1926-2020) PADRE DELLA MODERNA TERAPIA DEL PARKINSON di Kai S. Paulus

Oleh Hornykiewicz

Sapete qual è la prima scoperta sulla dopamina?

Allora si pensava che la dopamina fosse un insignificante intermedio nella sintesi della adrenalina, ma il giovane nativo ucraino e poi austriaco-canadese Oleh Hornykiewicz, durante i suoi studi a Vienna scoprì, intanto, che la dopamina, al contrario della adrenalina, abbassa la pressione del sangue (fatto che spiega diversi effetti collaterali dell’assunzione di levodopa, quali vertigini e sonnolenza).

A Prof. Hornykiewicz dobbiamo la conoscenza che la riduzione di dopamina nel sistema striatale causa il Parkinson, scoperta pubblicata nel 1961 in una rivista scientifica austriaca. Sua è anche l’intuizione che il Parkinson, dal punto di vista molecolare, è una malattia del deposito vescicolare, ed inoltre studiò fenomeni oggi molto conosciuti quali le discinesie da picco dose e l’effetto fine-dose, ed il miglioramento dei sintomi parkinsoniani con l’assunzione del precursore chimico della dopamina, la levodopa, cioè l’odierno gold-standard della terapia della malattia di Parkinson.

Oleh Hornykiewicz

Prof. Oleh Hornykiewicz insieme a moglie Christine mostrando alcune onorificenze.

Insomma, roba da Premio Nobel. Ecco, la nota dolente: nel 2000 ci si aspettava la strameritata assegnazione del prestigioso premio a Hornykiewicz per gli indiscussi meriti e le sue scoperte, vere pietre miliari della Medicina. Fu premiato invece un trio di grandi scienziati, Eric Kandel, Arvid Carlsson e Paul Greengard, però non il professore austriaco-canadese. Successivamente, Hornykiewicz si emozionò per le centinaia di lettere di solidarietà da parte di scienziati di tutto il mondo.

Oleh Hornykiewicz 2

La famosa pubblicazione del 1961 nella rivista universitaria di Vienna in cui Hornykiewicz con il collega Birkmayer spiegano gli effetti positivi della somministrazione di dopamina in persone affette da Parkinson

Oleh Hornykiewicz studiò fino alla sua morte i meccanismi che sottostanno all’origine del Parkinson, e pubblicò ancora nel 2017, all’età di 90 anni, un importante lavoro sul significato del claustrum (struttura del cervello ancora non ben esplorata) nella genesi dei sintomi motori e non-motori del Parkinson.

Hornykiewicz e claustrum

Pubblicazione su European Journal of Neuroscience del 2017, in cui Hornykiewicz e collaboratori spiegano il coinvolgimento nei sintomi motori e nonmotori del Parkinson da parte del claustrum, struttura del cervello a tutt’oggi non pienamente compresa

 

Fonti bibliografiche:

Rajput AH, Kisch SJ. Professor Oleh Hornykiewicz, MD (1926-2020): Remembering the father of the modern treatment of Parkinson’s disease. Movement Disorders 2020; 35:1916-1921

Schlossmacher MG, Greybiel AM. Conversations with dr. Oleh Hornykiewicz, founding father of the dopamine era in Parkinson’s: how do you wish to be remembered? Movement Disorders 2020; 35:1922-1932