Da alcuni anni ormai il numero dei confratelli incaricati di provvedere all’adempimento dei riti previsti per la Settimana Santa si riduceva sempre più di numero; ne erano rimasti solo due, vecchietti, pieni di acciacchi e di dolori e pertanto impossibilitati a compiere in sicurezza tutte le operazioni che il rito pasquale richiedeva, compresa la salita e la discesa dalla scala appoggiata alla croce del Cristo crocifisso. Già da alcuni giorni il parroco, in ambasce, ci parlava del problema prospettando anche l’eventualità di un Venerdi Santo senza la classica e tanto attesa cerimonia de “s’iscravamentu”. D’altronde una Confraternita non si poteva improvvivare da un giorno all’altro: occorrevano le vesti , i nastri, i cappucci adatti per ciascuno e soprattutto un’adeguata preparazione della cerimonia che doveva procedere in sintonia con la narrazione della passione del Cristo che il predicatore raccontava dal pulpito rispettando anche lui alcuni passaggi obbligati. A questo punto il parroco azzardò una proposta tanto inaspettata quanto improbabile: chiese a me e a Mario Faedda ( che qualche anno dopo diventò il Notaio M. Faedda) se eravamo disposti a interpretare la parte di almeno due dei discepoli che assistevano Gesù nelle tragiche ore della sua Passione e cioé Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo. Secondo il racconto evangelico i due raccolsero il corpo esanime di Cristo e lo deposero nel sepolcro. La proposta ci colse di sorpresa perché conoscevamo, si, il racconto evangelico ma ci mancava un minimo di coordinamento col predicatore del venerdi santo. Che era il giorno successivo. Eravamo due ventenni giovani e disinvolti e con incoscienza giovanile decidemmo di interpretare la sacra rappresentazione.
Ci presentammo qualche ora prima della cerimonia perché dovevamo prendere un minimo di confidenza con gli abiti di foggia completamente diversa dagli usuali, lunga tonaca bianca tipica delle confraternite, copricapo simile a una mitra vescovile, folta barba applicata al mento ed esposti su un ampio bancone logorato dall’uso e dal tempo tutti gli attrezzi (martello, tenaglie, chiodi, corona di spine) che avremmo dovuto maneggiare di lì a qualche ora per la deposizione del Cristo: Mario avrebbe impersonato Giuseppe D’Arimatea, io Nicodemo. La cerimonia avrebbe avuto inizio all’imbrunire. Il venerdi santo le campane rimangono mute, solo i crepitacoli annunciano l’inizio della cerimonia col loro rumore gracchiante.
La chiesa, come tutti gli anni, era gremita da una folla delle grandi occasioni.
A interrompere il bisbiglio diffuso che si percepiva nella chiesa, ieratica, comparve sul pulpito la figura di un sacerdote che cominciò a raccontare la storia della passione, crocifissione e morte di Gesù. Da questo momento i due nuovi confratelli, seduti ai piedi della croce collocata per l’occasione, dovevamo stare attentissimi allo svolgimento della narrazione perché a un certo punto saremmo diventati gli esecutori materiali della deposizione dalla croce del Cristo morto.
Il sacerdote riferì con grande partecipazione, a tratti con parole che inducevano alla commozione, momenti particolari della vita di Gesù e infine la dolorosa salita al Calvario, la Crocifissione, la Morte. Finalmente era arrivato il momento della nostra partecipazione attiva alla cerimonia. Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo cominciarono a salire le scale appoggiate ai due bracci della croce. Il sacerdote, rivolgendosi alternativamente ai due confratelli, li invitava a liberare Gesù dagli attrezzi che erano stati strumento atroce di morte. “ Tu Giuseppe D’Arimatea, libera dal chiodo la mano destra di Gesù che tanto bene ha dispensato durante la sua vita terrena”. “E tu Nicodemo togli dal volto del Salvatore quella corona di spine che gli era stata conficcata come scherno per ché si era dichiarato Messia e Re Universale”.
Il medesimo invito fu rivolto ai due confratelli affinché togliessero i chiodi che avevano trapassato la mano sinistra e i piedi che avevano attraversato la Galilea dispensando un nuovo Verbo di pace e amore. “ Mostrate questi strumenti di morte al popolo pietoso e deponeteli nel grembo della Madre Addolorata che tante sofferenze ha dovuto patire assistendo alla crocifissione e morte del Figlio. Adesso deponete il corpo esanime di Cristo nel sepolcro-lettiga per Lui preparato e trasportiamolo tutti insieme nella chiesetta che lo ospiterà e dove rimarrà esposto al culto dei fedeli sino al prossimo anno quando riproporremo le celebrazioni religiose della Settimana Santa”.
Si era conclusa in maniera soddisfacente per tutti la nostra estemporanea partecipazione come improvvisati confratelli ai riti della Settimana Santa. Avevamo tenuto viva una tradizione che rischiava di interrompersi per mancanza di “attori”; avevamo risolto le ansie del parroco che non sapeva più che santo invocare; infine anche Mario ed io avevamo goduto di un imprevisto momento di notorietà che ci aveva fatto trascorrere una Pasqua ancor più felice.
Franco Simula