Volare si Può, Sognare si Deve!

Scriviamo un libro

Il senso della vita – testo di G.B.

 

 

 

 

 

Il vecchio Thimor ,

nella sua lunga vita ha molto

viaggiato così come ha amato.

Ora a riposo,

nella casa che affaccia sul porto

guarda le barche ormeggiate;

altre che passano,

solcano  onde spinte dalla brezza di ponente,

verso destinazioni ignote,

al nocchiero ricordano i suoi viaggi,

che la memoria silenziosa gli riporta.

Il suo sguardo ferito  dai

bagliori di fuoco del tramonto

trova quiete sul mare di perla.

lontano, nel tepore salmastro della sera

lontano qualcuno canta,

e il pensiero riflesso

rincorre i timori dell’anima;

cirri  mutevoli,

impetuosi in  mare aperto

dilatano la sofferenza.

Rigato è il volto di pietra

che la bruma avvolge con

innocente carezza.

Scevro di coscienza

è il dilemma

che rovista l’arcano .

La vita rivive nella memoria

di ciò che è stato,

o il senso della vita è altra cosa ?!.

G.B.

La deposizione del Venerdì Santo – testo di Franco Simula


Da alcuni anni ormai il numero dei confratelli incaricati di provvedere all’adempimento dei riti previsti per la Settimana Santa si riduceva sempre più di numero; ne erano rimasti solo due, vecchietti, pieni di acciacchi e di dolori e pertanto impossibilitati a compiere in sicurezza tutte le operazioni che il rito pasquale richiedeva, compresa la salita e la discesa dalla scala appoggiata alla croce del Cristo crocifisso. Già da alcuni giorni il parroco, in ambasce, ci parlava del problema prospettando anche l’eventualità di un Venerdi Santo senza la classica e tanto attesa cerimonia de “s’iscravamentu”. D’altronde una Confraternita non si poteva improvvivare da un giorno all’altro: occorrevano le vesti , i nastri, i cappucci adatti per ciascuno e soprattutto un’adeguata preparazione della cerimonia che doveva procedere in sintonia con la narrazione della passione del Cristo che il predicatore raccontava dal pulpito rispettando anche lui alcuni passaggi obbligati. A questo punto il parroco azzardò una proposta tanto inaspettata quanto improbabile: chiese a me e a Mario Faedda ( che qualche anno dopo diventò il Notaio M. Faedda) se eravamo disposti a interpretare la parte di almeno due dei discepoli che assistevano Gesù nelle tragiche ore della sua Passione e cioé Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo. Secondo il racconto evangelico i due raccolsero il corpo esanime di Cristo e lo deposero nel sepolcro. La proposta ci colse di sorpresa perché conoscevamo, si, il racconto evangelico ma ci mancava un minimo di coordinamento col predicatore del venerdi santo. Che era il giorno successivo. Eravamo due ventenni giovani e disinvolti e con incoscienza giovanile decidemmo di interpretare la sacra rappresentazione.
Ci presentammo qualche ora prima della cerimonia perché dovevamo prendere un minimo di confidenza con gli abiti di foggia completamente diversa dagli usuali, lunga tonaca bianca tipica delle confraternite, copricapo simile a una mitra vescovile, folta barba applicata al mento ed esposti su un ampio bancone logorato dall’uso e dal tempo tutti gli attrezzi (martello, tenaglie, chiodi, corona di spine) che avremmo dovuto maneggiare di lì a qualche ora per la deposizione del Cristo: Mario avrebbe impersonato Giuseppe D’Arimatea, io Nicodemo. La cerimonia avrebbe avuto inizio all’imbrunire. Il venerdi santo le campane rimangono mute, solo i crepitacoli annunciano l’inizio della cerimonia col loro rumore gracchiante.
La chiesa, come tutti gli anni, era gremita da una folla delle grandi occasioni.
A interrompere il bisbiglio diffuso che si percepiva nella chiesa, ieratica, comparve sul pulpito la figura di un sacerdote che cominciò a raccontare la storia della passione, crocifissione e morte di Gesù. Da questo momento i due nuovi confratelli, seduti ai piedi della croce collocata per l’occasione, dovevamo stare attentissimi allo svolgimento della narrazione perché a un certo punto saremmo diventati gli esecutori materiali della deposizione dalla croce del Cristo morto.
Il sacerdote riferì con grande partecipazione, a tratti con parole che inducevano alla commozione, momenti particolari della vita di Gesù e infine la dolorosa salita al Calvario, la Crocifissione, la Morte. Finalmente era arrivato il momento della nostra partecipazione attiva alla cerimonia. Giuseppe D’Arimatea e Nicodemo cominciarono a salire le scale appoggiate ai due bracci della croce. Il sacerdote, rivolgendosi alternativamente ai due confratelli, li invitava a liberare Gesù dagli attrezzi che erano stati strumento atroce di morte. “ Tu Giuseppe D’Arimatea, libera dal chiodo la mano destra di Gesù che tanto bene ha dispensato durante la sua vita terrena”. “E tu Nicodemo togli dal volto del Salvatore quella corona di spine che gli era stata conficcata come scherno per ché si era dichiarato Messia e Re Universale”.
Il medesimo invito fu rivolto ai due confratelli affinché togliessero i chiodi che avevano trapassato la mano sinistra e i piedi che avevano attraversato la Galilea dispensando un nuovo Verbo di pace e amore. “ Mostrate questi strumenti di morte al popolo pietoso e deponeteli nel grembo della Madre Addolorata che tante sofferenze ha dovuto patire assistendo alla crocifissione e morte del Figlio. Adesso deponete il corpo esanime di Cristo nel sepolcro-lettiga per Lui preparato e trasportiamolo tutti insieme nella chiesetta che lo ospiterà e dove rimarrà esposto al culto dei fedeli sino al prossimo anno quando riproporremo le celebrazioni religiose della Settimana Santa”.
Si era conclusa in maniera soddisfacente per tutti la nostra estemporanea partecipazione come improvvisati confratelli ai riti della Settimana Santa. Avevamo tenuto viva una tradizione che rischiava di interrompersi per mancanza di “attori”; avevamo risolto le ansie del parroco che non sapeva più che santo invocare; infine anche Mario ed io avevamo goduto di un imprevisto momento di notorietà che ci aveva fatto trascorrere una Pasqua ancor più felice.

Franco Simula


Pasca ‘e Abrile – testo di Egle Farris


Cozzula con l’uovo

Così la chiamavano, per distinguerla da quella che allora veniva consacrata come Pasca ‘e Nadale nel mio piccolo, indimenticato paese.

Le immagini sgranate sono quelle della casa del pane, così chiamavano quelle due stanze in terra battuta, col cortile, il pozzo e la legna  accatastata e lingue di rosso fuoco nel forno…e le “luscie” piene di grano con le trappole per topi tutt’attorno e le pannocchie, prese per i capelli e appese alle travi …e mani che impastavano farina e secchi d’acqua tirati con affanno …e campane legate e slegate che non capivo mai cosa dicessero gli adulti a questo proposito e il giovedì a vedere nelle due chiese i “sepolcri”, parola evocante misteri incomprensibili ed inaccessibili a noi piccini , alti verdi fili  attorniati da nastri colorati e il  bianco tenero dei germogli del grano o delle lenticchie dritti ed incolonnati, che li volevo sempre accarezzare, ma non si poteva, non era riguardoso … ci dicevano.

E noi non toccavamo anche se non capivamo cosa fosse riguardoso…

E la Madonna nel suo simulacro sempre nero e addolorato, portata in giro per le strade sibilanti solo di vento, strette e silenziose ,e donne nero-vestite coi capelli sciolti che riempivano quei silenzi di pianti ed implorazioni….e i bambini  vestiti da angeli, addobbati di lustrini e catenine d’oro cucite abilmente  a scanso di lunghe mani e che gli usciva l’alluce dal buco della scarpa troppo piccola …e le pulizie pasquali con l’unico detersivo esistente marca  “olio di gomito “, che si sciorinava tutto ai primi soli dalla finestra  finalmente aperta ….e la benedizione di quelle povere, lustre case col prete in cotta e i chierichetti tronfi con il paniere delle offerte dove qualche uovo aveva già fatto la frittata e la bisaccia per i dolci e il sacchetto ,piccolo ,per i soldini …che pochi ne venivano elargiti e la veglia della notte del sabato, tutto al buio col solo chiarore di una candela e una fiammella ,perché doveva rinascere, ma chi? mi chiedevo, chi? …..e poi la domenica quello scampanio che riaccendeva sorrisi e auguri e felicità….e poi tutti quei giorni di confusi, 000 intrecciati avvenimenti, persone, silenzi e misteri  e candele e Madonne in processione allora si perdevano e fuggivano e non mi facevo più domande, dimenticavo tutto di fronte  a quelle “cozzule ‘e s’ou” con innumerevoli forme di biondo pane frastagliato come ricamo, con un uovo sodo al centro ed un nastro bianco attorno, che era la cosa più bella mai uscita da quella casa del pane …….

Una signora col rossetto                                                       Egle Farris


Racconto breve – il tram n° 77 testo di G.B.


Sei precipitata nel mio cuore prima ancora di conoscerti, con l’ irruenza del destino;

il tuo il sorriso, lo sguardo, l’incedere,  erano già  parte di me, mancava la tua figura, la tua presenza ; sapevo che saresti arrivata e ti  avrei riconosciuta al primo sguardo del nostro primo incontro.

Così pensava Emiliano nel suo intimo, < ” la sua donna  l’avrebbe  riconosciuta tra mille ” > ,  doveva  aspettare,  doveva solo aspettare.

Nell’attesa, nel suo girovagare di  giovane pubblicista “freelance” di un giornale sportivo, non aveva disdegnato amicizie con colleghe e altre amiche occasionali; ma erano state storie sentimentali di poco conto, relazioni superficiali, prive  di veri sentimenti amorevoli  e nessuna  sopravviveva all’usura  del tempo; rapporti, per così dire,  vissuti e consumati in fretta, senza pretese ne rimpianti.

Il suo lavoro, nella scala dei valori , era al primo posto; era così importante da decretare la fine di un rapporto prima ancora che lo stesso mettesse radici.

Le relazioni , semplicemente finivano,  senza “lacrime” ,  e di loro rimaneva solo uno sbiadito ricordo, poi dimenticato.

Poi, fu l’incontro galeotto, nel tepore di una primavera  incipiente, alla fermata  dei  tram  n° 19 – e  n° 77 – di piazzale Loreto.

<Quando sono arrivato, lei era già in attesa del tram, lo sguardo fisso  sul cellulare, estraniata da tutto,  si distingueva da quanti gli erano intorno>.

Una figura snella, decisamente alta,  ben proporzionata nel jeans attillato; mocassini,  camicetta in tinta , e blazer  poggiato sul braccio completava la sua  “mise minimalista”;  la sola concessione alla civetteria  femminile era la  borsa firmata che teneva a  tracolla.

Nel vedere la sua figura così appropriata, d’istinto, mi sono rivolto a lei chiedendole  < ” il  – 77 – è già passato ?! ” ( …. )>  lei,  sempre confinata sul suo  cellulare non dava ascolto , perciò , schiarendomi la voce, in modo da attirare la sua attenzione, ho ripetuto la domanda con tono più alto  – dopo  un tempo che a me  è sembrato lunghissimo, disinvolta, ha rivolto il suo viso al mio.

Nel voltarsi,  con gesto naturale, i suoi capelli  castani  si sono scomposti e lei li ha ravviati intrecciandoli tra le dita, così da rivelarmi  il suo volto (….) !!

In quel preciso momento un tumulto di sentimenti mi è esploso dentro, – non ho  sentito la sua risposta – ,  ma uno  scossone che mi percuoteva l’anima !!.

L’ incarnato del viso esaltava il sorriso aperto,  la voce flautata,  che  in quel momento poteva aver detto qualunque cosa, mi giungeva come una musica che stordiva i sensi,  e il suo sguardo diretto, color ambra,  penetrava il cuore artigliando i battiti  che acceleravano senza ritegno.

Era Lei ( ….. )!! a conferma,  il raffinato e semplice modo di porsi, che denotava una personalità decisa  e tenera al contempo, mi aveva già conquistato.

Comicamente confuso,  <ho solo occhi per il suo viso radioso > ,  mi rendo  conto  che mi guarda con espressione divertita , (….) < mi scuoto > , e la sola cosa che riesco a farfugliare dopo essermi ripreso é : < ” in attesa del prossimo tram, posso offrirle un caffè ” ?! >  lei,  sempre più divertita annuisce chinando la testa di lato !!  così , con sguardo complice ci  avviamo  al bar dell’angolo  (…..)  incontro al nostro caffè e la nostra storia !!

Epilogo:

Non è dato sapere se la storia tra Emiliano e Ludovica, questo è il nome di LEI, sia sbocciata  e loro siano le due anime gemelle  che la storia promette.

Il lettore può dare il seguito che preferisce;  a me resta il gusto del racconto e il sottile confine confuso  tra realtà e sogno.

g.b.


Vi narrerò di tre secoli, due donne, un sogno – testo di Egle Farris


Vecchia .  Vecchia e rassegnata .

Già vecchia e rassegnata lo nacque ,la mia prozia ,circa venti anni prima della fine dell’ottocento                

Sempre così arrendevole, ignorata ,vecchia e rassegnata . Labbro superiore con neri baffetti d’ordinanza , come imponevano le regole di allora , un rosario dai grani  di legno consunti sulla sinistra, snocciolato continuamente e la destra impegnata a servire . Perché allora le figlie zitelle ,chiamate  solo zia col loro cognome, come  dalle convenzioni sociali  e verbali ,assolutamente da rispettare, a quello erano destinate ,servire il resto della numerosa famiglia.   E lei trascorreva gli anni in quella cucina col pavimento scuro ,con una finestra così in alto che ci voleva una sedia per aprirla e il cielo era sempre troppo lontano . Stagioni ,inverni , estati passate tra due guerre ,il fuoco sempre acceso in un camino ad angolo,un tripode troppo nero ed infernale, che accoglieva una padella esagerata . E io mi saziavo di quelle frittelle infinitamente lunghe, morbide e spugnose ,di quelle “origliette” intorcinate e tuffate nel biondo miele ma…..in cambio lei pretendeva  e mi insegnava , nonostante la mia ritrosia, con fermezza e convinzione, una preghiera  sarda sugli angeli ,che dopo oltre settant’anni , ricordo ancora ….     E fu così che , un giorno , il più impaziente dei nipoti , trovò nel minestrone  un crocifisso alto un palmo , caduto, ovvio ,dal suo rosario. La scena ,tragicomica, fu lunga e feroce e lei che sempre aveva abbassato la voce e la testa ,la alzò un’unica  volta quella testa ,guardò tutti,uno ad uno ,e non volle più fare niente, chiusa in un silenzio che solo lei sentiva assordante e in giorni senza speranza , sino a che se ne andò, qualche attimo prima della mezzanotte del 31 dicembre di un anno immemorato ,come se anche quello nuovo ,che galoppava veloce,  l’avesse rifiutata ………                                                                                                               

E quando , perso tutto per me nella memoria , venti anni fa ,mi arrivò per vie traverse ed imperscrutabili, l’ unico tesoro materiale da lei mai posseduto ,ho cercato in ogni luogo dove sono stata, le statuine di un angelo .  Non mi chiedo il perché ,ma il primo gesto che compio al ritorno è   sempre quello di aprire la “sua” credenza ed aggiungerne altri , come fossi stata invitata e destinata a vivere nel terzo secolo  .

E mi accade allora qualcosa di immaginario ed illusorio  , che non ritorna  , stimolante e rigenerante di tutti i miei sensi .Inizio a provare sensazioni ,nelle quali mi smarrisco e tento di tornare in me ,ma vengo trascinata in silenzi abissali e luci all’infinito ,nei silenzi più profondi e velocità che noi non siamo in grado di quantificare . Mi smarrisco e mi anniento  in sogni ritrovati, dopo averli perduti. Con lo sguardo pronto al  silenzio, nella solitudine spaventosa degli spazi e tempi inesplorati. Spazio e tempo che non esistono più. E così ,lasciandomi trascinare per prima,  come lei nata vecchia ,  nata io inguaribilmente, irreparabilmente , inesorabilmente  agnostica , assisto però in quel preciso momento ad una esplosione di luce che mi divampa negli occhi e nel cuore facendomi tremare ogni singola cellula . Sento dappertutto che quegli atomi di lei ,che viaggiano alla velocità della luce in algidi luoghi e spazi  atemporali  e silenziose stelle che iniziano e terminano in  mondi che non capiamo e  che non ci è dato sapere , fuggiti alla gravitazione , si fermano un nanosecondo di un tempo eterno ,perpetuo ed inestinguibile e “sentono” che una donna ancora la ricorda e può aspettarla ed invitarla ad esplorazioni inimmaginabili  a mente umana  .Solo che abbia voglia  di trasformarsi in lucenti e sfavillanti  atomi come lei ,donna  che dai conformismi  sociali dei suoi tempi , da un fato e da una vita ingrata, arrogante  ed avarissima non ebbe neppure la gioia di essere chiamata col solo  dono che ebbe ,il  magnifico nome  che portava .

LEONTINA

Una signora col rossetto                                                Egle Farris

Lawrence Maxwell Krauss .      Ispiratore dei miei sogni .

“La cosa sorprendente è che ogni atomo nel tuo corpo viene da una stella che è esplosa.

E gli atomi nella tua mano sinistra vengono probabilmente da una stella differente da quella

corrispondente alla tua mano destra.

È la cosa più poetica  che conosco della fisica .

Tu sei polvere di stelle ” .

Nonna Manghini – Testo di Egle Farris


Oggi la mia amata metà ha preparato le mezze maniche al pomodoro …..
E il ricordo è tornato vivissimo e presente dopo più di mezzo secolo.
Nonna Manghini lavorava con una mano e mezza. L’altra mezza che le restava era sempre impegnata in “unu pittigu ‘e tabaccu “.
Perchè nonna era una delle ultime fra le donne del suo tempo che tabaccava. Rammento le sue due tabacchiere con il ” Sun di Spagna” e quel famoso rumore, tipo “clic clac”. Una tabacchiera che ricordo, forse, di corno con un tappo di consunto sughero e che appariva e spariva con gesti di maestria e magia da una tasca di quella gonna quasi lunga con la larga arricciatura, di colore sempre scuro a minuscoli fiorellini bianchi.
Nonna Manghini non possedeva grandi cose,ma teneva un bel comò, di quelli una chiave e quattro cassetti. Nella sua stanza era a destra, entrando, ed il primo cassetto era la grotta di Alì Babà per noi nipoti. Intanto le ostie. Perchè al tempo i farmaci, quasi sempre in polvere, venivano avvolti in un’ostia a formare i famosi, come diceva lei, “cascè” . Ma a noi piacevano solo le ostie , per l’appunto e le rubavamo in gran quantità, nascondendoci da qualche parte per sgranocchiarle. E quando se ne accorgeva ,noi eravamo belli che spariti ……
E poi quel barattolo di vetro pieno di polverina marrone, che altro non era che le spore di un fungo delle querce, la vescia, che era la panacea delle sbucciature delle ginocchia. Ci veniva elargita come polvere magica che faceva scomparire tutte le “bue” in un lampo di tempo, ma in effetti non aveva altra funzione che asciugare un pò di sangue. Meno male che la natura che protegge i bambini aveva disposto per noi miliardi di anticorpi ,se no quella polverina ci avrebbe spedito all’altro mondo per fare, come si diceva allora, la coroncina di angeli alla Madonna …….
E le mezze maniche ? Che c’entrano, vi state chiedendo …
Calma, ci arrivo …………
Le narici penso le avesse paralizzate, tipo gli odierni cocainomani , non doveva più sentire odori o profumi, olezzava sempre e solo di tabacco. E fu così che una volta, non avevo più di otto-nove anni, mia madre partì e lei, nonna, venne un giorno ad aiutare il figlio, mio padre, e preparare il pranzo .
E facemmo tutti e tre , babbo, Laerte ed io una rigorosissima giornata di dieta. Tutto sapeva di tabacco, ma il peggio furono le mezze maniche con “sa bagna “, che non era rossa come i pomodori di allora, ma aveva un bel color castagna che ci fece rabbrividire . E rimasero tutte tutte lì quelle mezze maniche , desolatamente abbandonate col loro sugo marroncino nel piatto, con la scusa che non avevamo fame ……
Una signora col rossetto                                                         Egle Farris


 

Lettera aperta della Vice Presidente Dora Corveddu


Carissimi amici, questo anno, che volge al termine, ci ha fatto vivere mesi di grandi difficoltà ed incertezza, ci ha fatto, però, anche dono di grandi gesti di solidarietà e di grande stima ed affetto.
Tutti abbiamo visto e seguito la raccolta fondi da parte di Myangelwin, che non solo ci ha dato contributi economici, ma e soprattutto, ci ha fatto conoscere persone straordinarie, ricche di umanità e bellezza interiore. A loro rivolgiamo la nostra gratitudine ed il nostro affetto sincero.
Il nostro affettuoso grazie va, come ogni anno, anche a Laura Piga e Fabrizio Sanna che seguono la nostra Associazione costantemente, sia con sostegni economici, sia con le loro proposte ed iniziative sempre costruttive ed illuminanti.
Ancora… le quattro moschettiere, Rita, Laura, Dora ed Elenia, hanno donato generosamente 2000 euro, frutto della vittoria col 2° premio nazionale Think Hack Restart conquistata a luglio col progetto presentato a Cagliari e finanziato da Banco di Sardegna e Fondazione di Sardegna.
Ringraziamo con affetto e simpatia anche la signora Luisanna Sanna che ci ha fatto una generosa donazione in occasione del Natale.
Ma le sorprese non sono finite: pochi giorni fa una o più persone di grande cuore e generosità hanno compiuto un gesto straordinario a beneficio della nostra Parkinson Sassari: ci siamo ritrovati una donazione di ben 5000 euro sul nostro conto corrente bancario.
Ciò che ci ha maggiormente colpito, oltre alla somma veramente cospicua, è la volontà, del o dei donatori, di mantenere l’anonimato.
Si dice che il bene si fa in silenzio, senza pubblicità ed i nostri benefattori ci sono riusciti. Siamo certi che essi ben conoscono il lavoro che si fa all’interno del nostro gruppo, che è fatto di accoglienza, solidarietà ed empatia, oltre, naturalmente, alle attività prettamente riabilitative.
Vogliamo perciò rivolgere la nostra sentita gratitudine a tutti coloro che con magnanimità e grande sensibilità hanno voluto compiere gesti così generosi che ci danno l’energia e la determinazione nell’andare avanti.
A tutti rivolgiamo anche i nostri più affettuosi auguri per un nuovo anno ricco di serenità e di pace.

 

Un Natale. 1948 – testo di Egle Farris

Natele 1948

Al mio paese era il presepio che si preparava . Con molto muschio,due o tre ceppi, farina e cartapesta . Rami di lentisco e alloro formavano il verde e c’era chi metteva sempre un pezzetto di specchio sotto un ponte sbilenco . Le pecorelle erano sempre bipedi ,tripodi nel migliore dei casi . E seguivano improbabili caldarrostai e corpulenti ostesse ,lavandaie e ciabattini . E se il muschio era umido,la mattina appresso le statuine erano che belle e spappolate , essendo di cartapesta.
La mia famiglia preparava però anche l’albero ,novità stravagante,fuori da ogni canone e non in linea coi principi cristiani . L’albero consisteva in un gruppo di rami di pino ,abeti manco l’ombra al mio paese ,desolatamente piangenti verso il basso . E si tiravano fuori, gelosamente conservate ,palline di vetro così sottile che bastava un sospiro per farne mille pezzetti di cielo , e si alternavano a mandarini profumati legati con la rafia e , delizia ,cioccolati dalle forme inusuali e mai viste . Pipe , bottigliette di spumante , biscotti , babbi natale, pecorelle e pigne e tutto era lucente di incarti di iridate stagnole . Sadismo ,puro sadismo era . Non potevamo toccare nulla sino alla sera della vigilia ,dopo cena , quando da un cappello venivano estratti bigliettini col nome di quelle delizie . I vecchi della famiglia avevano spesso una coperta addosso ,il riscaldamento consisteva in un camino ed una goffa col bracere ,che bruciava le gambe di macchie color vino . Sulla tavola fichi accoppiati con la mandorla dentro, melograni che si erano addobbati da soli con le loro corone , torroncini quadrati colla scatola che riproduceva i dipinti di Leonardo ,il croccante di mandorle e zucchero brulè ,le teriche e i papassini . Col lanternino della mente cerco quelle frittelle aromatiche di buccia candita, accompagnate dai rosoli colorati e quei grappoli d’uva leggermente aggrinziti ,ma soavi ,che scendevano dalle soffitte . Così come ritrovo anche le fettuccine col sugo di carne ,il brodo di gallina con i quadrucci che si consumavano l’indomani a pranzo , pranzi semplici ed ingenui .Non avevamo l’abitudine della messa di mezzanotte , quel latinorum allora sconosciuto ed incomprensibile non piaceva a mio padre . Si mangiava ancora qualche castagna che bruciava nelle braci ,si giocava a tombola coi fagioli , si raccontavano “sos contos” e si andava quindi a dormire pensando ai regali del giorno appresso. Che veniva presto , prestissimo , in una camera gelida odorosa di pino , dove la magia consisteva nello scartare poveri doni ,come un mastello di legno con marmellata di albicocche e un tralcio di confetti (celesti ! forse gli unici trovati) e amaretti avvolti da carte colorate e trasparenti con un grosso fiocco . Sono grata alla mia memoria perchè risento dietro le palpebre suggellate , sapori e profumi spariti nelle nebbie del tempo , rivedo le mille e mille scintille fuggenti dai diavoli dei bracieri nella notte buia e fredda , quando anche le vie parevano stringersi l’un l’altra per scaldarsi ad un tepore che non sarebbe potuto venire . E tutto questo è rimasto in pochi angoli di me , remoti ed inaccessibili , non ancora perduti ,ma irrimediabilmente avvolti nello scorrere di un tempo esistente solo nelle mie nostalgie .

Santo Stefano
Spalancai gli occhi dal sonno .Tre anni , avevo tre anni,e la ricordo ancora, seduta davanti a me . I capelli più biondi che avessi mai visto ,occhi cerulei aperti e curiosi ,labbra rosse e un vestitino bianco di lana pesante . Le presi la mano liscia, la toccai , gesù non mi sembrava vero , io sempre sola avere una compagnia . Non ci lasciammo più . Mi seguiva silenziosa ed io mostravo a tutti quanto mi voleva bene .Offrivamo il thè alle signore (acqua tiepida zuccherata ) in un minuscolo salottino di vimini e cioccolato nero americano e farina lattea ,dolce e soffice. Anche a tavola stavamo vicine ed amavamo gli stessi cibi e correvamo in quelle stanze dai tavolati cigolanti ed inquietanti e guardavamo sotto quei letti altissimi, allegre e ridenti e correvamo via veloci ,quando da un enorme quadro Santa Lucia ,con gli occhi in un piatto ed un viso devastato dal dolore , ci spaventava ed atterriva . E allora tornavamo a rifugiarci nel rassicurante confortante salottino di vimini . E quel giorno d’inverno , che fioccavano falde morbide fitte fitte , fittissime ,e bioccoli spumosi ed ovattati e giocare in quelle buie, gelide stanze , sterminate al nostro metro di bambine , non ci era permesso, quel giorno di S.Stefano ,dicevo ,che eravamo tutti in cucina , grande cucina , paludate con grossi maglioni di lana pungente di fronte ad uno scoppiettante camino con ceppi d’ulivo ardenti , lei si staccò dalla mia mano e cadde. Con gli occhi che fuggivano fulminei ,cadde , ed in lampo di ciglia,la vidi attraverso un velo di lacrime, diventare un grumo nero, colloso ed opaco, la mia bambola adorata che quando la giravi sul dorso abbassava le palpebre e pronunciava l’unica sempre uguale , solitaria parola , dondolante e sfumante . Nanaiiiiiiiiiii …… Nanaiiiiiiiiii ……. Nanaiiiii…… aiiiiii …..aiii….iiii..

Una signora col rossetto

Egle Farris


Intervento del Presidente Franco Simula alla “Notte europea dei ricercatori”


NOTTE EUROPEA DEI RICERCATORI

Gentili ascoltatori, buona sera

L’incontro odierno è collegato alla Convenzione firmata con l’Università degli Studi di Sassari che ha creato e permesso l’interscambio tra pazienti e docenti specialisti di varie discipline, trasformandolo in tal modo in un rapporto proficuo per entrambi: i malati forniscono i dati e i contenuti clinici che gli specialisti utilizzano per i loro studi e le loro ricerche, che poi vengono divulgate e si rivelano di fondamentale utilità per i pazienti stessi. Così è avvenuto in incontri pregressi che hanno approfondito i problemi del sonno, la biochimica delle emozioni, l’efficacia terapeutica della musica.

Così è avvenuto in occasione della discussione delle due tesi di laurea sull’alimentazione e oggi sul dolore nel Park.

Tutto ciò rientra pienamente tra gli scopi dell’Associazione Parkinson Sassari, nata nel 2013 con i seguenti obiettivi:

1) Promuovere e informare sulle cure e i diritti dei malati di Parkinson;

2) Proporre attività di riabilitazione convenzionale e non convenzionale (teatro, danza, musica e canto).

3) Favorire momenti di aggregazione sociale con attività ricreative, incontri di studio, di approfondimento, di confronto sulla malattia di Parkinson e sulle problematiche connesse sia mediche che sociali.

Le attività che hanno caratterizzato la pur breve vita della nostra Associazione sono tantissime, per fornire un quadro complessivo di esse ci limiteremo a farne solo un elencazione sommaria:

è stato creato un ecosistema che ci ha consentito di usufruire del contributo professionale di una fisioterapista, di una logopedista, di una musico terapista, di esperti di canto, teatro, ballo, di uno psicologo anche per il sostegno alle famiglie. Gli incontri hanno avuto cadenza almeno trisettimanale, inframezzati da riunioni conviviali, visite a luoghi di interesse culturale, conferenze di esperti, esibizioni in pubblico del nostro coro con studenti delle scuole cittadine e in alcune RSA; insomma, siamo usciti dall’isolamento del dialogo solitario e deprimente di ciascuno con la propria malattia in un clima di solidarietà ed amicizia, sviluppato anche mediante contatti costruttivi con le altre associazioni Parkinson della Sardegna e numerose altre associazioni.

A ciò si aggiunge l’organizzazione, con una pluralità di esperti, di convegni annuali sul Parkinson a Sassari ed Alghero, dove per la prima volta si è declinato il Parkinson al femminile nell’ottica di una medicina di genere.

Abbiamo dovuto combattere una lunga e logorante battaglia per ottenere un ambulatorio Parkinson dedicato ai disturbi del movimento. A causa del mancato turn over dei medici nella clinica neurologica si era andata progressivamente chiudendo per i pazienti la possibilità della continuità assistenziale, obbligandoli o al ricovero o al ricorso al Pronto soccorso, con costi umani ed economici imponenti:

in virtù di una Convenzione tra ATS e AOU siamo riusciti ad ottenere l’ambulatorio Parkinson, grazie anche al sostegno della stampa e dei telegiornali locali.

Purtroppo da un anno a questa parte la disponibilità dell’ambulatorio è stata nuovamente ristretta, e ora che infierisce il Covid è ulteriormente ridotta. A ciò si aggiungono sia l’isolamento sociale imposto dal lockdown per un’utenza di pazienti anziani, portatori di patologie croniche e degenerative come noi Parkinsoniani, sia l’impossibilità di praticare le terapie complementari in presenza. Tutto ciò ha prodotto nella totalità dei malati danni fisici e psicologici devastanti.

Abbiamo quindi fatto ricorso alle moderne tecnologie di comunicazione a distanza attraverso videoconferenze e chat di gruppo, spesso supportati dall’Università.

Infine, dopo un colloquio con i massimi dirigenti dell’ ATS, abbiamo presentato una proposta di PDTA, cioè Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale sulle linee guida del Piano Nazionale delle Cronicità, che prevede la presa in carico a 360 gradi dei malati di Parkinson, senza nessun aggravio di spesa, perché gli specialisti sono già in carico al servizio sanitario nazionale, evitando la defatigante ricerca nel territorio dello specialista che di volta in volta è necessario Purtroppo, però, non abbiamo ottenuto risposte: siamo perfettamente consapevoli della gravità della situazione emergenziale venutasi a creare con il Covid, ma non vorremmo che tale congiuntura possa fungere da alibi per continuare a depotenziare il servizio sanitario territoriale già ridotto ai minimi termini.

Sembra che le altre, gravi patologie invalidanti e progressive come la nostra non abbiano diritto di cittadinanza. A questo non ci possiamo rassegnare, non ci stiamo e siamo decisi a combattere ancora per difendere i nostri diritti.

Grazie.

Tempo di castagne – testo di Egle Farris

Tempo di castagne - testo di Egle farris

Venivano al mio paese quando cominciavano i primi freddi. Un mulo macilento e affamato che implorava una sosta, e un carretto, che una volta doveva essere stato dipinto di giallo, pieno di sacchi di castagne. Lui, lunga barba, piccolo e secco con pantaloni rattoppati con decine di ritagli di stoffe diverse, che probabilmente ed inizialmente dovevano essere stati di fustagno, lei con un vecchissimo costume dalla caratteristica cuffietta, forse di Desulo, ancora più secca di lui. Andavano di paese in paese , vendendo quelle castagne raccolte con fatica ,mangiando poco e dormendo meno, perché le tettoie e le stalle dove si accampavano la notte dovevano essere gelide e respingenti . Oltre che vendere castagne, riparavano ombrelli e, piatti rotti , smerciavano umili oggetti di legno, mestoli, colini. Lui aveva un sacco con fili di ferro, ritagli di stoffe, aghi, ombrelli vecchissimi da cui ricuperare pezzi di ricambio. Testardo, rattoppava. cambiava stecche ossidate, manici mutilati o amputati del tutto in ombrelli neri o verdi, quelli enormi allora usati dai contadini. E ai poveracci che gli davano lavoro riparava anche piatti, zuppiere, vassoi di terracotta. Univa i vari cocci, dopo aver fatto due buchetti col ” girabacchino “, con un mastice bianchiccio e una graffa che presto sarebbe arrugginita, rendendo quelle stoviglie ancora più brutte e deturpate.
E tutti si affollavano attorno, poveri da una parte, miseri dall’altra e seguivano gesti lenti, precisi e caparbi, fatti con serietà ed impegno che avrebbero reso quegli umili utensili ancora utilizzabili, perché allora nulla veniva buttato, tutto riciclato sino ad una fine non più rimandabile.  Vita grama che si esauriva in ogni paese dove si fermavano dopo qualche giorno dall’arrivo, con un lavoro misero, spesso pagato solo con fieno per il mulo e una notte in una stalla o pane e formaggio che non rifiutavano mai e che veniva segnato da innumerevoli segni di croce. E se ne andavano, sfiniti e poveri come erano arrivati, umile vita itinerante per vie lontane e sparivano sino all’anno successivo, sparivano oltre quella curva della vecchia fontana, giù giù……. alla fine del paese……….

Una signora col rossetto                         Egle Farris