Al mio paese era il presepio che si preparava . Con molto muschio,due o tre ceppi, farina e cartapesta . Rami di lentisco e alloro formavano il verde e c’era chi metteva sempre un pezzetto di specchio sotto un ponte sbilenco . Le pecorelle erano sempre bipedi ,tripodi nel migliore dei casi . E seguivano improbabili caldarrostai e corpulenti ostesse ,lavandaie e ciabattini . E se il muschio era umido,la mattina appresso le statuine erano che belle e spappolate , essendo di cartapesta.
La mia famiglia preparava però anche l’albero ,novità stravagante,fuori da ogni canone e non in linea coi principi cristiani . L’albero consisteva in un gruppo di rami di pino ,abeti manco l’ombra al mio paese ,desolatamente piangenti verso il basso . E si tiravano fuori, gelosamente conservate ,palline di vetro così sottile che bastava un sospiro per farne mille pezzetti di cielo , e si alternavano a mandarini profumati legati con la rafia e , delizia ,cioccolati dalle forme inusuali e mai viste . Pipe , bottigliette di spumante , biscotti , babbi natale, pecorelle e pigne e tutto era lucente di incarti di iridate stagnole . Sadismo ,puro sadismo era . Non potevamo toccare nulla sino alla sera della vigilia ,dopo cena , quando da un cappello venivano estratti bigliettini col nome di quelle delizie . I vecchi della famiglia avevano spesso una coperta addosso ,il riscaldamento consisteva in un camino ed una goffa col bracere ,che bruciava le gambe di macchie color vino . Sulla tavola fichi accoppiati con la mandorla dentro, melograni che si erano addobbati da soli con le loro corone , torroncini quadrati colla scatola che riproduceva i dipinti di Leonardo ,il croccante di mandorle e zucchero brulè ,le teriche e i papassini . Col lanternino della mente cerco quelle frittelle aromatiche di buccia candita, accompagnate dai rosoli colorati e quei grappoli d’uva leggermente aggrinziti ,ma soavi ,che scendevano dalle soffitte . Così come ritrovo anche le fettuccine col sugo di carne ,il brodo di gallina con i quadrucci che si consumavano l’indomani a pranzo , pranzi semplici ed ingenui .Non avevamo l’abitudine della messa di mezzanotte , quel latinorum allora sconosciuto ed incomprensibile non piaceva a mio padre . Si mangiava ancora qualche castagna che bruciava nelle braci ,si giocava a tombola coi fagioli , si raccontavano “sos contos” e si andava quindi a dormire pensando ai regali del giorno appresso. Che veniva presto , prestissimo , in una camera gelida odorosa di pino , dove la magia consisteva nello scartare poveri doni ,come un mastello di legno con marmellata di albicocche e un tralcio di confetti (celesti ! forse gli unici trovati) e amaretti avvolti da carte colorate e trasparenti con un grosso fiocco . Sono grata alla mia memoria perchè risento dietro le palpebre suggellate , sapori e profumi spariti nelle nebbie del tempo , rivedo le mille e mille scintille fuggenti dai diavoli dei bracieri nella notte buia e fredda , quando anche le vie parevano stringersi l’un l’altra per scaldarsi ad un tepore che non sarebbe potuto venire . E tutto questo è rimasto in pochi angoli di me , remoti ed inaccessibili , non ancora perduti ,ma irrimediabilmente avvolti nello scorrere di un tempo esistente solo nelle mie nostalgie .
Santo Stefano
Spalancai gli occhi dal sonno .Tre anni , avevo tre anni,e la ricordo ancora, seduta davanti a me . I capelli più biondi che avessi mai visto ,occhi cerulei aperti e curiosi ,labbra rosse e un vestitino bianco di lana pesante . Le presi la mano liscia, la toccai , gesù non mi sembrava vero , io sempre sola avere una compagnia . Non ci lasciammo più . Mi seguiva silenziosa ed io mostravo a tutti quanto mi voleva bene .Offrivamo il thè alle signore (acqua tiepida zuccherata ) in un minuscolo salottino di vimini e cioccolato nero americano e farina lattea ,dolce e soffice. Anche a tavola stavamo vicine ed amavamo gli stessi cibi e correvamo in quelle stanze dai tavolati cigolanti ed inquietanti e guardavamo sotto quei letti altissimi, allegre e ridenti e correvamo via veloci ,quando da un enorme quadro Santa Lucia ,con gli occhi in un piatto ed un viso devastato dal dolore , ci spaventava ed atterriva . E allora tornavamo a rifugiarci nel rassicurante confortante salottino di vimini . E quel giorno d’inverno , che fioccavano falde morbide fitte fitte , fittissime ,e bioccoli spumosi ed ovattati e giocare in quelle buie, gelide stanze , sterminate al nostro metro di bambine , non ci era permesso, quel giorno di S.Stefano ,dicevo ,che eravamo tutti in cucina , grande cucina , paludate con grossi maglioni di lana pungente di fronte ad uno scoppiettante camino con ceppi d’ulivo ardenti , lei si staccò dalla mia mano e cadde. Con gli occhi che fuggivano fulminei ,cadde , ed in lampo di ciglia,la vidi attraverso un velo di lacrime, diventare un grumo nero, colloso ed opaco, la mia bambola adorata che quando la giravi sul dorso abbassava le palpebre e pronunciava l’unica sempre uguale , solitaria parola , dondolante e sfumante . Nanaiiiiiiiiiii …… Nanaiiiiiiiiii ……. Nanaiiiii…… aiiiiii …..aiii….iiii..
Una signora col rossetto
Egle Farris
Le incredibili atmosfere sarde dei recenti racconti di Egle Farris, ed in particolare questa “Un Natale 1948”, ma anche “Ognisanto” e “Tempo di castagne”, ulteriormente impreziositi dai commenti straordinari di Giannella Cossi, conosco bene, Ma come? vi domandate, se non c’ero ancora, né in Sardegna e neanche ancora al mondo. Ho visto i vostri racconti recentemente in un documentario: “Un giorno in Barbargia” di Vittorio de Seta del 1958. Vengono raccontati gli stenti (tanti) ma anche gli svaghi (pochi), esattamente come li state descrivendo voi, grandi narratrici e testimoni di una Sardegna che fu, e che è bene non dimenticare.
Cara Egle, i tuoi ricordi hanno lo straordinario effetto di destarmi sensazioni sopite e sepolte nel labirinto della memoria. Il freddo delle nostre case, i segni violacei sulle gambe di tutti noi intorno al fuoco del camino o del braciere, i “contos de foghile” delle vecchie, spesso paurosi con la figura della “phantasgima”, i profumi delle castagne arrosto o del panunto con i ciccioli di lardo arrostiti sul braciere. L’unica bambola che ricordo troneggiava in esposizione al centro del divano, e ci potevo giocare solo quando ero malata. Apriva e chiudeva gli occhi se la muovevo e dietro la schiena aveva un bottone che, schiacciato, le faceva emettere una specie di verso. Ho giocato molto di più con le “pupie de istrazzos” fatte con gli avanzi di stoffa della mia zia più giovane che faceva la sarta. Ricordo che uno zio che avevamo in America mandava pacchi e in uno di questi c’era un piccolo comò rosso di plastica tutto lavorato con tre cassetti che si aprivano foderati di velluto. Era il mio scrigno preferito.
Devo dire però che non mi mancavano i giochi, specialmente quelli all’aperto. Oltre ai classici “nascondino” etc. sulla cantonata collocata davanti alla casa di mia nonna giocavo alle 5 pietre con una compagna che si chiamava Pascuccia e che non ho mai più ritrovato.
Dei Natali ho pochissimi ricordi che coincidono con i tuoi: un ramo di pino , qualche palla colorata e cioccolati di varie forme in carta stagnola. Evidentemente, non c’era niente di memorabile, almeno in quegli anni o forse sono altri i ricordi più vivi.
Cara signora col rossetto, questo tuo racconto evocativo mi suggerisce questa frase del poeta G.Garcia Màrquez: “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Rinverdire i ricordi lieti coi racconti gratifica il sentimento di appartenenza alla vita.
GB carissimo infatti ho detto che ringrazio la mia memoria ,ma succede che certe volte fa tilt .Ma non importa e la frase di Marquez è deliziosa nella sua verità .Fammi leggere ancora del tuo ,sono sicura che hai tantissimo da scrivere .Ci conto EGLE