Volare si Può, Sognare si Deve!

Pillole sul Parkinson

IL RIPOSIZIONAMENTO di Kai S. Paulus

(Pillola n. 35)

Cosa c’entra il termine “riposizionamento”, parola alquanto obsoleta e consumata, con le nostre Pillole sul Parkinson?

L’ovvio significato della parola non necessita di ulteriori spiegazioni ed anche il Treccani è molto sintetico e lapidario: “il porre di nuovo una cosa nel luogo da cui si era tolta o spostata”.

Però, il “riposizionamento” in campo farmacologico è una procedura emergente e molto attuale. Si tratta di riproporre un noto farmaco, per esempio una sostanza ipoglicemizzante per la terapia del diabete, per il trattamento di una malattia diversa, per esempio il Parkinson.

Da alcuni anni, il settore dello sviluppo di nuovi farmaci è in enormi difficoltà a causa dei costi proibitivi dello sviluppo, della sperimentazione e della commercializzazione di nuove sostanze, ed anche per le difficoltà di reperire le materie prime per principi attivi, eccipienti, ma anche per blister e confezioni.

“Riposizionamento di farmaci: una breve panoramica”

 

La ricerca di nuovi usi per farmaci già in commercio comporta grossi vantaggi, oltre che economici per l’azzeramento dei costi di sviluppo e sperimentazione, specialmente di sicurezza e tolleranza conoscendo già approfonditamente le caratteristiche del medicinale, i suoi pregi e difetti (effetti collaterali ed avversi) confermati grazie al suo lungo utilizzo nel campo per cui era stato concepito.

Il primo e più famoso caso di “riposizionamento” di un farmaco riguarda l’acido acetilsalicilico (Aspirina) che nasce originariamente (nel 1899!) come analgesico, ma nel 1980 trova una sua seconda indicazione come farmaco antiaggregante e per la prevenzione di malattie cardiovascolari, per cui il biochimico e farmacologo inglese, John Robert Vane ottenne il Premio Nobel nel 1982. Addirittura, l’acido acetilsalicilico ha ottenuto recentemente una terza indicazione in campo oncologico.

Spesso, queste nuove indicazioni vengono scoperte per puro caso, come per esempio, il pramipexolo (Mirapexin) che originariamente venne sviluppato come antidepressivo, ma trovò subito il suo principale utilizzo nella cura del Parkinson, oppure l’antivirale amantadina (Mantadan) che oggi è conosciuto come strumento contro le discinesie causate dal Parkinson.

Interessante lavoro di un gruppo scientifico milanese, appena pubblicato, sull’utilizzo di farmaci cardiologici e dismetabolici per il trattamento della scialorrea e della disfagia.

 

La lista di esempi è molto lunga, ma l’attualità è molto affascinante per noi, in quanto stanno per arrivare in soccorso alle truppe in battaglia contro su nemigu farmaci antidiabetici, anti-asmatici, ACE inibitori e betabloccanti, a basso impatto socio-economico ed alta efficacia.

Caro rapace infingardo, per te sarà sempre più dura!

 

Fonti bibliografiche:

Battini V, Rocca S, Guarnieri G, Bombelli A, Gringeri M, Mosini G, Pozzi M, Nobile M, Radice S, Clementi E, Schindler A, Carnovale C, Pizzorni N. On the potential of drug repurposing in disphagia treatment: New insights from a reral-world pharmacovigilance study and a systemic review. Frontiers in Pharmacology 2023, doi: 10.3389/fphar.2023.1057301.

Jourdan JP, Bureau R, Rochais C, Dallemagne P. Drug repositioning: a brief overview. Journal of Pharmacy and Pharmacology 2020; 72: 1145-1151.

MALATTIA DI PARKINSON: AAA CERCASI PAZIENTI di Kai S. Paulus

(Pillola n. 34)

Sicuramente vi ricordate il famigerato e molto discusso convegno organizzato nel novembre 2017 dall’Istituto di Medicina Nucleare della AOU di Sassari (rileggete anche Cronaca del Convegno su Disturbi del Movimento e Disturbi Cognitivi), quando ad un certo momento il nostro allora presidente Franco Simula si accomoda sulla poltrona del moderatore in mezzo all’anfiteatro dell’Aula Magna della Facoltà di Medicina e si rivolge clamorosamente al pubblico composto da studenti, medici e ricercatori: “State cercando di studiare e di capire la malattia di Parkinson? Eccomi!” Il pubblico rimase ammutolito.

Fig. 1: Il famoso manifesto “Io ti voglio per l’armata degli USA” del 1917 con cui gli USA, lo Zio Sam, cercavano volontari per le loro forze armate.

Con il suo sorprendente ed apparente semplice gesto, con cui offrì la sua collaborazione di diretto interessato, il nostro amico aveva ampiamente anticipato i tempi.

Solo ora la scienza internazionale si accorge della necessità non più di spiegare solo accademicamente questa complicatissima malattia, ma di affiancare le persone ammalate per comprenderla meglio unendo forze ed esperienze.

Fig. 2: L’editoriale dell’ultimo numero della rivista “Journal of Parkinson’s disease” con il titolo: “Persone con Parkinson come collaboratori della Rivista della malattia di Parkinson”

Nel recentissimo editoriale della rivista scientifica “Journal of Parkinson’s disease” gli autori spiegano le ragioni della loro innovativa scelta, quella di coinvolgere le persone affette da Parkinson direttamente nelle scelte editoriali e negli studi della loro rivista. Già precedentemente la rivista “Movement Disorders” ha introdotto nei loro numeri l’ottima rubrica “Il punto di visto del paziente”.

Come aveva intuito Franco Simula, solo la persona che vive sulla propria pelle i quotidiani disagi e difficoltà, fisiche e psicologiche, della malattia può spiegare ciò che avviene davvero dentro il proprio corpo.

Insomma, la scienza ha bisogno, a mio avviso giustamente, del parere e della stretta collaborazione dei diretti interessati per comprendere meglio le innumerabili sfaccettature del quadro globale del rapace infingardo.

Fig. 3: I due editoriali del numero di Luglio 2022 della rivista “Movement Disorders” che introducono la nuova rubrica del mensile scientifico: “La prospettiva del paziente”.

Vi devo dire che sono molto contento di questa “emancipazione parkinsoniana” internazionale. Seguendo l’esempio del suo coraggioso condottiero del 2017, il nostro Ecosistema Parkinson Sassari in questi anni ha partecipato attivamente a tante ricerche e progetti scientifici (vedete anche PARKINSON E VIRUS: NUOVE CONFERME, oppure AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA, oppure l’attualissima PROGETTO SARDEGNA; PALESTRA A CIELO APERTO), ha dimostrato, e continua a dimostrare, di essere all’avanguardia e sempre in prima linea nella lotta contro su nemigu.

LUNA DI MIELE di Kai S. Paulus

(Pillola n. 33)

Il periodo della “Luna di miele” si riferisce comunemente ai primi mesi o anni di una coppia di innamorati, quando entrambi sono felici e tutto va bene, non ci sono incomprensioni e ci si perdona tutto.

Negli anni ’60, con la scoperta della dopamina come cura del Parkinson (ancora oggi lo standard della sua terapia), questo felice termine fu adottato anche per la prima fase della malattia di Parkinson, quando tutto sembra filare liscio.

In seguito alla diagnosi, e dopo un periodo di preoccupazione e smarrimento, si inizia la terapia dopaminergica che, come per magia, riduce o addirittura annulla i sintomi e disagi quali tremore, rigidità e rallentamento motorio. La persona affetta da Parkinson, dopo la triste notizia della diagnosi, si sente subito meglio, fisicamente e psicologicamente, è fiduciosa e pronta ad affrontare la battaglia contro “su nemigu”. Ed anche per la sua famiglia rientra l’allarme rosso scattato dalla diagnosi e ci si può rilassare.

La luna di miele è un bellissimo periodo anche per il medico, perché si sente confermato nel suo lavoro, nella sua diagnosi e nella scelta della sua terapia, ma soprattutto vede la soddisfazione del suo assistito che non raramente lo pone su un piedistallo, che però per un medico giovane ed inesperto può nascondere delle spiacevoli insidie.

Inesorabilmente, lo sappiamo purtroppo molto bene, la luna di miele finisce e, dopo un determinato tempo che può durare mesi oppure anche qualche anno, iniziano i problemi: la malattia progredisce e la terapia miracolosa perde efficacia e tornano i sintomi, nuovi approcci farmacologici appaiono meno efficaci, anzi, adesso si deve combattere pure con i loro effetti collaterali. Insieme all’aggravarsi del quadro neurologico, si fanno strada sentimenti negativi, come delusione e rabbia, e ci si convince che la scelta del medico era sbagliata. Inizia quello che viene chiamato il “giro delle sette chiese”, uno speranzoso pellegrinare verso studiosi e professori illustri che però, data la natura della malattia, non sono in grado neanche loro di riportare l’orologio al “tempo delle mele”.

Per fortuna, il resto della storia conosciamo: digerita la batosta, arrivano le terapie complementari, non farmacologiche, e le associazioni, come la nostra fantastica Associazione Parkinson Sassari, che rendono il Parkinson meno grave e più gestibile.

 

Fonte bibliografica:

Alonso-Canovas A, Voeten J, Gifford L, Thomas O, Lees AJ, Bloem BR. The early treatment phase in Parkinson’s disease: not a honeymoon for all, not a honeymoon at all? Journal of Parkinson’s disease, 2023: in fase di pubblicazione

MALATTIA DI PARKINSON E BENESSERE di Kai S. Paulus

(Pillola n. 32)

 

La malattia di Parkinson è una malattia cronica, lentamente progressiva, e non (ancora) guaribile. Per cercare di gestirla e per consentire alle persone colpite di (sopra-) vivere, ci si avvale di tonnellate di farmaci e di esercizi fisici spesso noiosi e faticosi. L’imperativo è di “rimanere attivi”, di “fare” (leggi anche SIAMO QUELLO CHE FACCIAMO).

Alla persona ammalata, già affaticata, dolorante e magari ansiosa e depressa, viene chiesto davvero tanto: un tour de force ad ostacoli, tra familiari, caregiver, terapisti e medici che impongono il da farsi, che bisogna prendere le pastiglie all’ora giusta, mangiare sano, esercitarsi sempre, uscire e fare passeggiate anche se non si ha voglia, non riposare di giorno e dormire bene di notte.

Che corsa, che stress!

 

E se ci prendessimo un momento di relax? Magari farci coccolare da un massaggio?

Che i massaggi fanno bene si sa. Ma forse si sa di meno che i massaggi possono far bene alla persona con Parkinson, seppur non è una nozione nuova, visto che sin dagli anni ‘70 sono stati pubblicati diversi lavori scientifici sull’effetto di vari tipi di massaggio (Classico, Tattile, Thai, Anma, Riflessologico, Neuromuscolare, Yin Tuo Na, Addominale, Trager, ecc.) sulle manifestazioni motorie e non motorie della malattia di Parkinson, con risultati variabili, ma tutti con l’evidenza di miglioramento della qualità di vita e sensazione di benessere anche a lungo termine.

 

La scienza attuale mette l’accento sul mantenimento di un accettabile livello qualità di vita, e penso che la qualità di vita possa essere migliorata anche con un momento di relax, con delle sedute di massaggi.

Immaginatevi di essere sdraiati su un lettino, lontani dal mondo, sereni di “non dover fare” nulla, di godersi il momento, mentre le vostre membra vengono delicatamente manipolate procurandovi delle sensazioni piacevoli di calore e di rilassamento completo.

Queste sedute di dolce non-far-nulla possono essere molto salutari, in particolare nella malattia di Parkinson, dove rigidità e contratture causano dolori cronici e posture sbagliate, e dove malessere e malcontento, disagio e tensione, sono all’ordine del giorno.

Uscire da una seduta di thai o shiatsu, sereni e con meno dolori e muscoli più rilassati può essere molto benefico ed avere degli effetti molto positivi sulla salute in generale, con possibile miglioramento del tono dell’umore e del sonno, riduzione dell’ansia e quindi miglioramento della qualità di vita che sarà, anche se non ottimale, ma almeno più soddisfacente.

 

E se poi con i massaggi si riuscisse ad ottenere, oltre alle coccole, anche dei miglioramenti dei sintomi parkinsoniani, allora sono convinto che i massaggi debbano far parte delle importanti terapie complementari (musicoterapia, arti-terapie, ecc.), che completano la gestione globale della malattia di Parkinson, accanto alle terapie tradizionali, farmacologiche e riabilitative.

 

Fonti bibliografiche:

Angelopoulou E, Anagnostouli M, Chrousos GP, Bougea A. Massage therapy as a complementary treatment for Parkinson’s disease: a systematic literature review. Compl Th Med 2020; 49: doi: 10.1016/j.ctim.2020.102340

Kang Z, Xing H, Lin Q, Meng F, Gong L. Effectiveness of therapeutic massage for improving motor symptoms in Parkinson’s disease: a systematic review and meta-analysis. Front Neurol 2022; 13: doi: 10.3389/fneur.2022.915232

SIAMO QUELLO CHE FACCIAMO di Kai S. Paulus

(Pillola n. 31)

Neanche un mese fa avevamo stabilito che siamo quello che mangiamo (vedi SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO), ma ovviamente, logica vuole, che siamo anche quello che facciamo e che abbiamo fatto durante la nostra vita.

Secondo le nuove linee di ricerca delle neuroscienze il nostro cervello possiede delle riserve che possono essere reclutate in caso di necessita.

E così abbiamo una riserva fisica, strutturale, detta riserva cerebrale (brain reserve, BR), statica e passiva che però permette l’attivazione di circuiti alternativi in caso di danno cerebrale (ictus, emorragia, tumore, ecc); poi esiste la riserva cognitiva (cognitive reserve, CR, il “software” del cervello) che rappresenta l’adattabilità cerebrale e garantisce il mantenimento delle funzioni cognitive (memoria, pensiero, ecc.) anche se l’efficacia dei circuiti cerebrali soffre a causa di una malattia. Recentemente si è scoperta anche una riserva motoria (motor reserve, MR), considerata un processo di resilienza proiettata a mantenere le funzioni motorie tramite meccanismi di adattamento e di compenso di circuiti motori specifici nonostante un crescente peso patologico. Questo ultimo meccanismo di riserva motoria è ora al centro della ricerca internazionale per comprendere ulteriormente la malattia di Parkinson.

Traduzione del simpatico titolo dei ricercatori tedeschi: “Il concetto della riserva motoria nella malattia di Parkinson: vino nuovo in botti vecchie?”

Questi tre domini neurologici non sono per niente separati ma necessitano l’uno degli altri: mentre la riserva cerebrale mette a disposizione “i locali”, cioè dei circuiti neuronali sinora non utilizzati per compensare dei deficit dovuti ad una malattia, le riserve cognitiva e motoria collaborano sinergicamente per mantenere le attività ideomotorie per permettere la programmazione, l’ideazione, di un movimento volontario e la sua esecuzione fisica, motoria.

Le riserve cognitiva e motoria vengono create durante la nostra vita, con il nostro vissuto, le nostre esperienze e le nostre abitudini ed attività mentali e fisiche; ecco perché esiste l’infinita variabilità della malattia, perché ognuno/a ha la propria storia ed il proprio vissuto.

Per quanto riguarda la malattia di Parkinson, la tesi dell’esistenza di queste riserve, ed in particolare della riserva motoria, spiega l’infinita variabilità del quadro neurologico del Parkinson: il vissuto passato e presente. Il passato ci ha formato e ci permette di affrontare la vita e le sue difficoltà, ognuno/a a modo proprio, ma, dice la scienza, la riserva motoria può essere condizionata con le nostre attività attuali. Ed è qui che entra in gioco la grande opportunità di gestire il Parkinson con le attività quotidiane; non importa quali siano, perché ognuno/a ha le proprie preferenze ed attitudini, ma importante è che ci siano le attività di qualsiasi genere per permettere la compensazione, la resilienza cerebrale.

Resilienza” è una bella parola che abbiamo imparato a conoscere durante il lockdown del covid-19 e che ci ha permesso a resistere alle difficoltà, di adattarci e di trovare modi per superarle.

Non diversamente funziona la resilienza motoria nel Parkinson: conoscere la problematica, adattarsi e quindi attivarsi per combattere la malattia, per gestirla, e per poter vivere una vita degna di essere vissuta.

Il primo lavoro del 2020 che parla del concetto di riserva motoria nella malattia di Parkinson

Provo a tradurre:

Le riserve cognitive e motorie sono il nostro “salvadanaio” che abbiamo riempito durante la vita con le nostre esperienze ed azioni. In caso di malattia attacchiamo questo gruzzolo, ed ecco perché non ci accorgiamo quando inizia il Parkinson perché il cervello attinge alle sue riserve e compensa ottimamente, e solo dopo una decina d’anni, quando il salvadanaio è vuoto, iniziano i problemi e si manifestano tremori, rallentamento motorio e problemi di equilibrio.

Ma a questo punto è importante di non smettere a mettere gli spicci nel salvadanaio, cioè dobbiamo comunque cercare quotidianamente di proseguire la nostra vita ed essere attivi, per la resilienza, per resistere, per adattarci e per gestire al meglio le difficoltà.

Sicuramente torneremo presto su questo argomento per ulteriori aggiornamenti.

 

Fonti bibliografiche:

Hoenig MC, Dzialas V, Drzezga A, van Eimeren T. The concept of Motor Reserve in Parkinson’s disease: New wine in old bottles? Movement Disorders 2023; 38(1): 16-20.

Chung SJ, Lee JJ, Lee PH, Sohn YH. Emerging concepts of motor reserve in Parkinson’s disease. Journal of Movement Disorders 2020; 13(3): 171-184.

INVECCHIARE SENZA INVECCHIARE di Kai S. Paulus

(Pillola n. 30)

“Nessuno vuole essere vecchio, ma tutti vogliamo invecchiare”. Inizia così il reportage pubblicato ieri sul sito dell’autorevole quotidiano tedesco “Frankfurter Allgemeine Zeitung”.

La giovane giornalista tedesca Rahel Golub, laureata in scienze politiche e psicologia e quindi specializzata in giornalismo dei dati, esamina nel suo curioso articolo “Il segreto di una vita lunga – ed i suoi costi” le statistiche dell’invecchiamento.

Così veniamo a sapere che la pandemia del covid-19 ci ha tolto statisticamente 6 mesi di aspettativa di vita, e così altri fattori, quali guerre ed eventi globali politici, economici e ambientali, oppure malattie gravi, possono incidere sulla durata di vita di ognuno/a di noi senza che il singolo abbia modo di modificare tali eventi.

Ma dal punto di vista pratico ognuno/a possiede strumenti per influenzare la propria qualità e durata di vita.

Scontati appaiono le raccomandazioni delle limitazioni di fumo ed alcolici e di una corretta alimentazione, ma i dettagli statici sono impressionanti: così pare che il consumo eccessivo di carne rossa ed insaccati (oltre 120g/giorno) diminuisca l’aspettativa di vita di 16-18 mesi, poca attività fisica meno 12 mesi, e l’obesità (BMI oltre 30) ed il consumo di alcol (oltre quattro bicchieri/giorno) toglierebbero addirittura oltre 3 anni di vita. Come esempio, l’Istituto Oncologico Tedesco di Heidelberg illustra una persona obesa, forte fumatrice e consumatrice di alcolici e carni rosse che, da uomo, perderebbe 17 anni di vita, da donna ancora 13 anni.

Al contrario invece, un sano stile di vita, istruzione, cultura personale e benessere economico, allungano la vita. Pensate, secondo lo statunitense National Institute of Health, ogni minuto di attività sportiva allunga la vita di sette minuti.

Fin qui, niente di nuovo, che uno stile di vita corretto con buona alimentazione ed attività fisica aiuta a rimanere in forma lo sapevamo già.

Però, non si tratta solo di vivere il più a lungo possibile ma di come sopravvivere.

A questo proposito mi viene in mente un libro che alcuni anni fa ci ha presentato la nostra Nicoletta Onida (e vi invito a rileggere la sua bellissima Recensione di: “Come invecchiare senza diventare vecchi di Rudi Westendorp, Ponte alle Grazie, 2015), dove l’importante non è invecchiare, ma invecchiare bene. Quindi, è importante la qualità della vita, le passioni, i passatempi, i divertimenti, lo star bene con gli altri.

Ora mi direte, è facile invecchiare bene quando non hai il Parkinson. Giusto. Ma se non hai il Parkinson, hai l’Alzheimer, una cardiopatia, il diabete, la depressione o un tumore, difficile trovare qualcuno che sia completamente sano. Le malattie rientrano nelle statistiche delle aspettative di vita e vengono date per scontate. Quindi?

Quindi, contro il destino e la genetica, contro guerre e catastrofi non possiamo fare nulla, ma chiunque può cercare di vivere la propria vita al meglio delle proprie possibilità.

Dall’età non si guarisce, ma si può invecchiare senza invecchiare? Forse sì. Intanto, il solo invecchiare è già un considerevole traguardo. E poi, si può invecchiare cercando di rimanere giovani: sempre curiosi ed aperti alle novità.

 

SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO di Kai S. Paulus

(Pillola n. 29)

Siamo quello che mangiamo”, logico, non ci piove, lo sappiamo, e fin qui niente di nuovo.

Ma adesso parliamo di prevenzione. Durante le visite i familiari, e comprensibilmente i figli, mi chiedono spesso, se esistono terapie per prevenire, e quindi possibilmente evitare, il Parkinson che ha colpito il genitore. E puntualmente rimangono basiti quando la mia risposta è negativa.

Non siamo in grado di guarire dalla malattia di Parkinson né di prevenirla. Ma qualcosa sta cambiando.

Recentemente si sta facendo strada l’ipotesi che il cibo, la nostra alimentazione, potrebbe rappresentare un importante fattore di prevenzione per le malattie neurodegenerative.

Prima di Natale un gruppo di ricercatori sino-statunitensi ha pubblicato un interessante studio su circa 140.000 persone cinesi e le loro abitudini alimentari. In Cina l’età media sta aumentando rapidamente grazie al miglioramento delle condizioni di vita e quindi anche le patologie neurodegenerative sono in rapida crescita.

Secondo gli autori, le persone che seguono una dieta ricca di dolciumi e povera di fibre vegetali sarebbero a maggior rischio, e che invece l’alimentazione ricca di frutta, verdura e grano integrale costituirebbe un elemento protettivo. Ma dove sta la novità? Ce l’hanno detto già i nostri genitori e noi ai nostri figli, molto prima degli studiosi statunitensi e cinesi.

La novità sta nel fatto che ora si sta scoprendo perché i nostri genitori avevano ragione.

Siamo quello che mangiamo”, cioè, tutto quello che introduciamo per bocca arriva inevitabilmente nel nostro intestino, dove viene digerito e assimilato, grazie soprattutto alla flora intestinale, il microbiota, l’insieme di migliaia di specie di batteri e germi che vivono in simbiosi con noi e che ci nutrono e proteggono (vedi PARKINSON E MICROBIOTA). Questo microbiota necessita di un determinato equilibrio che viene garantito dal cibo introdotto. Se ci sono alimenti irritanti la flora intestinali si modifica e può anche squilibrarsi, cioè ad un certo punto possono prevalere dei ceppi batterici patogeni che causano alterazioni intestinali (gonfiore, stitichezza, diarrea, ecc.). Niente di grave. Ma se questo stato persiste, appunto per una alimentazione non corretta, allora queste alterazioni possono causare dei processi infiammatori della mucosa intestinale che, se cronica, possono coinvolgere la rete di nervi sottostante alla mucosa che serve per la motilità gastrointestinale.

Una infiammazione cronica del sistema nervoso può portare a fenomeni degenerativi, ed ecco la neurodegenerazione, che nel caso di Parkinson significa l’accumulo di alfa-sinucleina alterata (vedi anche L’ALFA-SINUCLEINA e ALLE ORIGINI DEL PARKINSON).

A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare e commentare che la cosa non gli riguardi perché, se mai, questi processi neurodegenerativi si svolgono nell’intestino, ben lontani dal cervello, dove il rapace infingardo entra notoriamente in scena.

Ma l’attenta lettrice e l’attento lettore del nostro sito sanno che esiste un formidabile collegamento tra cervello e intestino, ed i due organi si condizionano a vicenda. Come avevamo già descritto (vedi PARKINSON E MICROBIOTA e IL RUOLO DEL MICROBIOTA NEL PARKINSON) la proteina alterata di alfa-sinucleina può risalire lungo il nervo vago dall’intestino fino al cervello. Certamente si tratta di un’eventualità rara e, ribadisco, per causare la malattia di Parkinson ci vuole l’insieme di fattori diversi.

Però, stiamo parlando di prevenzione e una buona alimentazione, sana, equilibrata e possibilmente piacevole, è sicuramente un buon modo per tenersi in salute. (vedi anche AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA)

La scienza è appena all’inizio a conoscere i meccanismi iniziali del Parkinson, conoscenze che poi ci permetteranno a comprendere sempre di più i fattori di rischio che quindi permetteranno possibili strategie di prevenzione, e per cui torneremo presto a parlarne.

 

Fonte bibliografica:

Zhang X, Xu J, Liu Y, Chen S, Wu S, Gao X. Diet quality is associated with prodromal Parkinson’s disease features in Chinese adults. Movement Disorders 2022; 37(12): 2367-2375.

CELLULE STAMINALI – ABBIATE ANCORA UN PO’ DI PAZIENZA di Kai S. Paulus

(Pillola n. 28)

L’idea dei “pezzi di ricambio” è affascinante per la cura delle malattie croniche: inserire, dove serve, cellule nuove di zecca per far funzionare un organo o, nel caso nostro, un circuito cerebrale.

Le cellule staminali sono cellule immature, a riposo, ma che possiedono la proprietà, quando serve, di attivarsi e di differenziarsi in cellule mature e pienamente funzionanti. Sono dette anche pluripotenti, perché possono maturare, in base al bisogno, in cellule con diverse funzioni.

Le cellule staminali sono cellule giovani, immature che possono svilupparsi, differenziarsi, in tanti tipi diversi, in base alle esigenze dell’organismo. (da: www.my-personaltrainer.it 2023)

Non le conoscete? Eppure, andate dal parrucchiere ogni mese e vi tagliate le unghie ogni settimana.

Qualsiasi crescita biologica è possibile grazie alla presenza di cellule staminali, che vengono studiate e già utilizzate in alcuni campi medici, quali oculistica (cornea), diabete, oncologia, cardiologia, ecc. Il grosso problema delle cellule staminali provenienti da donatori è il rigetto, per cui la ricerca è molto concentrata sull’autotrapianto, cioè di cellule provenienti dallo stesso organismo, dette cellule staminali autologhe.

Anche nel Parkinson la ricerca sulle cellule staminali è molto intensa, perché l’idea di impiantare cellule sane nel circuito nigrostriale [neuroni dopaminergici che si proiettano dalla sostanza nera al putamen del corpo striato e che nel Parkinson si ammalano per prime; quindi nero=nigro e putamen/striato: nigrostriatale], ammalato è, oltre che affascinante, teoricamente fattibile. Principalmente vengono usate cellule provenienti da feti abortiti (che già solleva problematiche etiche).

Ma ci sono grossi problemi tecnici.

(e certo, ogni volta che siamo vicini ad una soluzione, Paulus ci dice che per il Parkinson non vale,…)

In questi anni di intensa ricerca sulle cellule staminali si sono presentati fondamentalmente tre scenari complicati:

  • Far arrivare il “pezzo di ricambio” a destinazione, al centro del cervello: per questo le cellule nuove devono attraversare la barriera ematoencefalica, cioè devono passare, se iniettate, dal sangue dentro il cervello e attraversare una ‘parete protettiva’ che si interpone tra vaso sanguigno e cervello (per fortuna esiste, diversamente ogni batterio del cavolo riuscirebbe ad entrare dentro il cervello); questo percorso è molto difficile;
  • Le cellule immature sono dotate di attività di crescita, di crescita, di crescita, e possono cescere, se non fermate, all’infinito. Cosa succede? Continuano a crescere in modo incontrollato: cancro! Non è proprio un bel modo per curare il Parkinson;
  • Le cellule nuove possono ammalarsi della stessa malattia: l’alfa-sinucleina alterata diffonde nel cervello ed infetta le cellule sane circostanti, quindi, nulla di fatto, il Parkinson persiste.

 

Questo mese, quindi attualissimo, un gruppo di ricercatori coreano-tedeschi ha pubblicato i risultati della loro ricerca sulle cellule staminali nel Parkinson sulla prestigiosa rivista ‘Movement Disorders’. Un gruppo di 15 pazienti è stato trattato con cellule staminali ed il risultato è stato una riduzione di alcuni sintomi parkinsoniani; ma il fatto più eclatante è che non si sono osservati effetti collaterali.

Le critiche a questo importante lavoro sono che il gruppo dei partecipanti è troppo esiguo, non c’è un gruppo di controllo di persone non trattate con staminali, ed, infine, il periodo di osservazione di 12 mesi pare non sufficiente per poter trarre conclusioni utili per l’applicazione di questa tecnica alla comunità di persone affette da malattia di Parkinson.

Non ancora, ma si stanno facendo grossi passi in avanti.

 

Fonte bibliografica:

Kim J, Inbo H, Kim HS, Kim WC, Jang SJ, Min K, Kim SH, Bae SH, et al. First clinical report on the treatment of Parkinson’s disease fetal midbrain precursor cells. Movement Disorders 2023, Jan 24: doi: 10.1002/mds 29316

ALLE ORIGINI DEL PARKINSON di Kai S. Paulus

(Pillola n. 27; seguito di L’ALFA-SINUCLEINA)

Ora conosciamo la funzione della proteina alfa-sinucleina all’interno della cellula nervosa, il neurone, ed è facile intuire che di questa proteina ce ne voglia una enorme quantità, visto che in pochi millisecondi deve legare e staccare migliaia di vescicole nelle terminazioni assonali dei neuroni per consentire la trasmissione dell’informazione nervosa. E quindi, l’alfa-sinucleina viene prodotta continuamente in quantità industriali.

Immaginatevi una catena di montaggio che produce tonnellate di un determinato prodotto: ci saranno degli scarti, è inevitabile. Questi scarti vengono eliminati attraverso diversi meccanismi cellulari, rappresentati principalmente dai lisosomi, piccole ‘bolle’ intracellulari che captano gli scarti e le digeriscono, oppure il sistema ubiquitone-proteasoma (UPS), che invece smantella gli scarti nelle loro parti elementari che poi potranno nuovamente essere utilizzate nella catena di montaggio.

Ora immaginatevi questa scena: la “nettezza urbana” del neurone, appunto lisosomi e UPS, non riesce ad eliminare gli scarti. Un disastro! Montagne di mondezza!

Questa pattumiera è rappresentata da alfa-sinucleina alterata che, da un lato, non funziona, e quel che è peggio, essa è tossica per il neurone producendo radicali liberi e danneggiando diversi organelli intracellulari, tra cui i mitocondri, le centrali energetiche della cellula. Uno scenario cellulare apocalittico: l’accumulo di alfa-sinucleina alterata che non solo non funziona compromettendo la corretta trasmissione dell’informazione nervosa, ma che danneggia il neurone dall’interno condannandolo a morte cellulare!

Per fortuna, esistono vari meccanismi di compenso, tra cui quello di raccogliere gli scarti tossici e di racchiuderli dentro dei “sacchi di mondezza”, i cosiddetti corpi di Lewy, inclusioni intracellulari sostanzialmente non pericolose; la cellula si salva e può continuare a svolgere il proprio lavoro, quello di mantenere funzionanti i circuiti neuronali dentro il cervello, e specialmente dentro i nuclei della base (gruppo di centri nervosi al centro del cervello), garantendo il corretto svolgimento dei movimenti muscolari.

Stadio iniziale: la cellula sta soffrendo e cerca di isolare l’alfa-sinucleina alterata dentro i corpi di Lewy e continua la sua attività liberando dopamina per la trasmissione dell’informazione nervosa.

Quindi, problema risolto?

Per un po’ di tempo sì, però, siccome continua la produzione industriale di alfa-sinucleina, continua anche l’ammontare dei suoi scarti, e pertanto, non funzionando i sistemi di smaltimento, aumentano continuamente i corpi di Lewy, che alla fine diventano talmente numerosi da riempire la cellula e di disturbare le sue funzioni.

Ci risiamo! Il neurone, non è in grado di lavorare correttamente e non può svolgere il suo compito, quello di liberare il neurotrasmettitore per la trasmissione dell’impulso nervoso a quello successivo, secondo o postsinaptico.

Infine, il primo neurone, quello afferente del circuito, non è in grado di liberare dopamina e pertanto si interrompe il circuito, con il risultato che l’attività dei muscoli non è più corretta e la persona dovrà vedersela con tremore, rigidità, rallentamento motorio ed instabilità posturale.

Stadio avanzato: la cellula si riempe di corpi di Lewy che disturbano l’attività del neurone che non riesce più a liberare dopamina; la trasmissione dell’informazione nervosa è interrotta.

Riassumendo, la salute della cellula nervosa, il neurone, in caso di malattia di Parkinson è minata fondamentalmente quattro volte:

  • Una eccessiva produzione di alfa-sinucleina alterata, che non può svolgere il suo naturale compito di garantire la trasmissione dell’informazione neuronale (nel caso nostro: l’esecuzione del movimento corretto)
  • La tossicità della alfa-sinucleina alterata che danneggia gli organi intracellulari (specialmente i mitocondri, le centrali energetiche delle cellule)
  • L’incapacità della ‘nettezza urbana’ (lisosomi, sistema UPS) a smaltire gli scarti di alfa-sinucleina, il che porta all’accumulo di alfa-sinucleina aggravando l’effetto degenerativo
  • L’unica difesa cellulare per neutralizzare gli scarti tossici (impacchettamento in sacchi, i corpi di Lewy) si ritorce contro la salute cellulare perché questi sacchi alla fine ingolfano talmente la cellula che essa non riesce più a svolgere le proprie mansioni.

Insomma, un bel problema: il secchio è bucato per almeno quattro insulti diversi, ognuno di per sé già devastante. Il secchio perde dopamina che con pastiglie, capsule, compresse e pompe dobbiamo continuamente riempire, se vogliamo riuscire a muoverci.

Un corpo di Lewy dentro un neurone come appare al microscopio elettronico.

Irreparabile?

No.

Ma di questo parleremo un’altra volta.

L’ALFA-SINUCLEINA di Kai S. Paulus

(Pillola n. 26)

Recentemente il nostro amico Franco Simula mi ha raccontato di aver sentito alla televisione un professore parlare della alfa-sinucleina a riguardo della malattia di Parkinson. Il nome non gli era nuovo, e ricordava che c’entrava con i meccanismi che portano al Parkinson, ma l’esatta funzione di questa proteina gli sfuggiva. In quel momento ho capito che, in effetti, l’alfa-sinucleina  abbiamo nominato tante volte in questo nostro sito, ma non ne abbiamo mai parlato in modo specifico, il che vorrei fare adesso con una breve presentazione di questa piccola ma importante proteina.

Partiamo dalla cellula nervosa, il neurone, il cui compito è trasmettere l’informazione, e lo fa attraverso un segnale bioelettrico lungo la sua superficie cellulare. Per poter coprire lunghe distanze (dell’ordine dei micrometri) il neurone si avvale di un prolungamento cellulare, l’assone, che permette al segnale nervoso di scorrere fino a destinazione, generalmente un altro neurone all’interno di un circuito o rete funzionale. I due neuroni, però, non vengono direttamente in contatto, e tra il terminale assonale del primo neurone e la parte ricevente del secondo neurone, il dendrite, rimane un piccolo spazio, la sinapsi.

Ora, l’impulso elettrico non può superare la sinapsi saltando da una parte all’altra, e pertanto la comunicazione tra i due neuroni avviene nel modo seguente:

Quando il segnale nervoso giunge alla terminazione assonale, l’informazione nervosa, di natura elettrica, viene trasformata in segnale chimico, cioè, l’arrivo dell’impulso elettrico promuove la liberazione nello spazio sinaptico di una sostanza, il neurotrasmettitore, che ‘nuota’ fino all’altra parte della sinapsi dove si lega a dei recettori specifici che quindi fanno ripartire il segnale elettrico lungo il secondo neurone.

Vi starete chiedendo: ma cosa c’entra la trasmissione del segnale nervoso tra due neuroni con quella strana proteina, l’alfa-sinucleina?

Una volta che il segnale nervoso è arrivato alla terminazione dell’assone, troverà pronte delle vescicole piene di neurotrasmettitori che vengono versati nella sinapsi in seguito al comando del segnale elettrico appena arrivato. Ed adesso entra in gioco l’alfa-sinucleina, perché è lei che lega la vescicola alla membrana cellulare terminale permettendo lo svuotamento del suo contenuto dentro lo spazio sinaptico.

Nello stesso modo, l’alfa-sinucleina serve per staccare la vescicola dalla membrana per potersi nuovamente riempire di neurotrasmettitore in attesa del prossimo segnale bioelettrico. Tutto questo meccanismo perfetto si svolge in pochi millisecondi continuamente in tutto il nostro sistema nervoso, cervello, midollo spinale e nervi periferici, e ci permette di pensare, di agire e di muoverci.

Meccanismo fantastico, vero? Ma cosa succede quando questo meccanismo non funziona bene, e soprattutto, quando l’alfa-sinucleina non svolge correttamente il suo ruolo? Ne parleremo prossimamente.

(segue con ALLE ORIGINI DEL PARKINSON)