Volare si Può, Sognare si Deve!

Pillole sul Parkinson

“HOUSTON, CI SENTITE?” di Kai S. Paulus

(Pillola n. 87)

Secondo il gruppo di ricercatori otorinolaringoiatrici statunitensi capitanati da Lee Neilson la riduzione dell’udito può rappresentare un fattore di rischio per sviluppare la malattia di Parkinson.

Whaoo, che frase forte!

Questa affermazione, pubblicata pochi giorni fa, il 21 ottobre scorso, è molto coraggiosa e provocatoria, visto che sinora si sosteneva che la perdita dell’udito non sarebbe correlato al rischio di riscontrare il Parkinson, come confermano anche il geriatra cinese Pingping Ning e colleghi solo pochi mesi fa. Poi, ieri, il 31 ottobre, il neurologo tedesco Thomas Mueller si inserisce nella discussione, ripercorrendo i dubbi su causa ed effetto, e cioè, se la neurodegenerazione comporti anche una compromissione dell’udito, oppure che i disturbi auricolari causino o comunque accelerino una neurodegenerazione.

Come vedete, botta e risposta in pochissimo tempo, il che sta a significare l’attualità della tematica nel contesto della corrente scientifica attuale che cerca indizi precoci per diagnosticare e trattare il Parkinson (vedi anche ” ALL ORIZZONTE LA DIAGNOSI PRECOCE DELLA MALATTIA DI PARKINSON”, PREVENIRE IL PARKINSON. PARTE 3: I PRODROMI“ e ”  DIAGNOSI DI MALATTIA DI PARKINSON: CAMBIA TUTTO!“).

E’ davvero affasciante, perché stiamo assistendo, praticamente ‘in diretta’, ad una discussione scientifica internazionale di alto livello.

Ma di che cosa si tratta esattamente?

(da: Studio Sentire srl 2024)

Il nostro cervello si orienta elaborando continuamente segnali che provengono dall’ambiente circostante, e lo fa raccogliendo dati sensoriali (visivi, uditivi, tattili, termici, olfattivi) che poi servono per reagire, e determinano le nostre azioni ed i nostri comportamenti. Quando invece un canale sensoriale è difettoso e non arriva il solito flusso di informazioni, il cervello viene stimolato di meno e non svolge le abituali compiti correttamente; la ridotta stimolazione comporterebbe alla lunga una disfunzione dei circuiti cerebrali ed un maggiore rischio ad innescare oppure velocizzare dei processi degenerativi.

Ning e colleghi affermano di non aver riscontrato alcuna correlazione tra riduzione/perdita dell’udito e la malattia di Parkinson, mentre il gruppo di Neilson sostiene che la relazione esiste e che la correzione dell’udito con apparecchiature e protesi potrebbe ridurre il rischio di Parkinson.

Dal conto suo, Mueller prende atto del lavoro di Neilson ma non trova un chiaro collegamento tra disturbo otorino e malattia di Parkinson.

Continuiamo a seguire questa interessante discussione che aggiunge altri tasselli per una sempre migliore comprensione del funzionamento del cervello e del possibile sviluppo di patologie neurodegenerative.

 

Fonti bibliografiche:

Mueller T. Vorteil fuer Hoergeraetetraeger: Hoerverlust beguenstigt Morbus Parkinson. SpringerMedizin.de, Parkinson-Krankheit, Nachrichten, 31.10.2024.

Neilson LE, Reavis KM, Wiedrick J, Scott DS. Hearing Loss, Incident Parkinson’s Disease, and Treatment with Hearing Aids. JAMA Neurol, 21 october 2024; doi.org/10.1001/jamaneurol.2024.3568.

Ning P, Mu X, Guo X, Li R. Hearing loss is not associated with risk of Parkinson’s disease: a Mendelian randomization study. Heliyon, 6 June 2024; doi.org/10.1016/j.heliyon.2024.e32533.

DIAGNOSI DI MALATTIA DI PARKINSON: CAMBIA TUTTO! di Kai S. Paulus

(Pillola n. 86)

Sappiamo che la malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa progressiva caratterizzata da sintomi motori, quali rallentamento motorio, rigidità muscolare, instabilità posturale e tremore a riposo, e da molti sintomi non motori, tra i quali ansia, depressione, disturbi del sonno, costipazione, riduzione dell’olfatto, dolori, fatica, e tanti altri.

Sappiamo anche che la diagnosi di Parkinson si basa sui sintomi cardinali (rallentamento, rigidità, tremore) e che non esistono né prevenzione e neanche alcuna terapia in grado di modificare il decorso della malattia.

Davvero?

No, in realtà le cose non stanno più così.

Da quest’anno, come raccontano le ricercatrici tedesche Henrike Knacke e Daniela Berg nell’attuale numero della rivista scientifica “InFo Neurologie+Psychiatrie“, la diagnosi della malattia di Parkinson è diventata molto più complessa, non più solo basata sull’osservazione clinica, ma ora include anche i reperti neuroradiologici (RM encefalo, SPECT cerebrali), le basi genetiche e la presenza o meno di alfa-sinucleina alterata nei liquidi corporei (saliva, liquor cefalorachidiano) e nella cute. E per la prima volta vengono considerati anche i sintomi precoci e preclinici, i cosiddetti “prodromi” (vedi anche “PREVENIRE IL PARKINSON. PARTE 3: I PRODROMI“), quali disturbi del sonno, costipazione, ipotensione ortostatica, disfunzioni erettili, disturbi funzionali vescicali.

Titolo dell’articolo di Henrike Knacke e daniela Berg “Diagnosi Parkinson: dalla classificazione clinica a quella biologica.” InFo Neurologie+Psychiatrie, ottobre 2024

Nel febbraio di quest’anno, il prof. Guenter Hoeglinger, insieme ad un prestigioso gruppo di esperti internazionali della malattia di Parkinson, ha proposto questo nuovo metodo di classificazione, SynNeurGe (che ricorda la parola inglese per “sinergia” e sta per Syn = alfa-sinucleina, Neur = neurodegenerazione, Ge = genetica) in cui vengono anche proposti per il periodo prima dell’esordio motorio della malattia tre fasi:

  1. Fase di rischio: condizionata dalla presenza di fattori genetici (predisposizione genetica), non modificabili, ed ambientali (esposizione a pesticidi, diserbanti, solventi, ecc.), modificabili (!!!)
  2. Fase preclinica: i processi neurodegenerativi sono iniziati ma ancora non rilevabili
  3. Fase prodromica: comparsa di sintomi non motori, non specifici, che però rappresentano un campanello d’allarme che permettono l’inizio dell’iter diagnostico e terapeutico, che rispetto a prima, può iniziare anche anni prima del noto esordio motorio del Parkinson.

Questo nuovo approccio diagnostico è molto importante per anticipare la diagnosi e migliorare la sua precisione, e soprattutto per sviluppare nuove strategie terapeutiche in grado di modificare il decorso della malattia, rallentarla, e per trovare terapie causali, cioè terapie per guarire dal rapace infingardo.

Il futuro è iniziato.

 

Fonti bibliografiche:

Hoeglinger GU, Adler CH, Berg D, Klein C, Outeiro TF, Poewe W, Postuma R, Stoessl AJ, Lang AE. A biological classification of Parkinson’s disease: the SynNeurGe research diagnostic criteria. Lancet Neurol, 2024;23(2): 191-204. doi: 10.1016/s1474-4422(23)00404-0.

Hoeglinger GU, Boxer AL, Lang AE. Clinical versus biomarker-based diagnosis of neurocognitive disorders. Lancet Neurol, 2024; 23(8): 765-766. doi: 10.1016/s1474-4422(24)00274-6.

Knacke H, Berg D. Diagnose Parkinson: Von klinischer zu biologischer Klassification. InFo Neurologie+Psychiatrie, 2024; 26(10): 40-49.

MALATTIA DI HUNTINGTON (1) di Kai S. Paulus

(Pillola n. 83)

La malattia di Huntington è una rara patologia genetica dovuta ad una mutazione del gene della proteina huntingtina, HTT. Questa mutazione comporta una eccessiva ripetizione della tripletta di basi nucleotidiche (tutti i geni sono formati da una serie di nucleotidi), C-A-G, che, quando superano le 40 ripetizioni, porta alla formazione della proteina huntingtina alterata, tossica per la cellula nervosa.

Copertina del numero speciale sulla Malattia di Huntington della prestigiosa rivista scientifica “Movement Disorders” del novembre 2022.

Ma perché parlare della malattia di Huntington sul sito dedicato alla malattia di Parkinson?

  • Entrambe le malattie sono delle patologie neurodegenerative progressive e basate sull’alterazione di una proteina essenziale per il corretto svolgimento delle funzioni dei neuroni,
  • entrambe rientrano nel capitolo dei Disordini del movimento con interessamento del centro della selezione del movimento, i nuclei della base, al centro del cervello,
  • l’Huntington viene utilizzato anche per studiare altre patologie neurodegenerative, come l’Alzheimer ed appunto il Parkinson.

Il fatto curioso è, che dal punto di vista clinico, una è il contrario dell’altra: il Parkinson è una malattia ipocinetica caratterizzata da rallentamento motorio, mentre l’Huntington è ipercinetico con eccesso di movimento.

 

QUADRO CLINICO

La “corea” viene descritta per la prima volta dal ventiduenne statunitense George Huntington nel 1872, ed è caratterizzata clinicamente dalla triade:

  • Sintomi motori: le coree, cioè ampi movimenti involontari, irregolari, afinalistici, che inizialmente interessano un arto o una parte del corpo, ma che successivamente possono coinvolgere tutto il corpo; rigidità e distonie; perdita dell’equilibrio, disartria (difficoltà nell’espressione verbale), e disfagia (difficoltà a deglutire)
  • Sintomi cognitivi: deficit della memoria a breve termine, disfunzioni esecutive (difficoltà nella pianificazione e riduzione delle flessibilità mentale), bradifrenia (rallentamento del pensiero)
  • Sintomi psichiatrici: ansia, depressione, apatia, disturbo del controllo degli impulsi, aggressività, psicosi; tra le persone con Huntington il rischio di suicidio aumenta di sette-dodici (!) volte rispetto alla popolazione generale. Altro dato drammatico è l’ipersessualità all’inizio della malattia e l’iposessualità negli stadi più avanzati con ulteriore aggravamento della vita di coppia.

Tutti i sopramenzionati sintomi hanno un andamento progressivo iniziando lievemente ed aumentando nel corso della malattia diventando sempre più invalidanti, imponendo un crescente peso anche per la famiglia ed i caregiver.

Come nel Parkinson, l’esordio della malattia è preceduto da una fase prodromica, della durata anche di molti anni, in cui si presentano i futuri sintomi in forma molto lieve e che spesso sfuggono ad una diagnosi precoce.

Ma andiamo a vedere nella prossima parte che cosa succede esattamente nella cellula nervosa e perché e quando si sviluppa questa malattia.

(segue con “MALATTIA DI HUNTINGTON (2)“)

Tappe principali dei progressi nella ricerca sulla malattia di Huntington, con l’importante scoperta della mutazione genetica nel 1993 (da: Movement Disorders, 2022)

MALATTIA DI HUNTINGTON (2) di Kai S. Paulus

(Pillola n. 84, seguito di “MALATTIA DI HUNTINGTON (1)“)

Nella prima parte abbiamo conosciuto i sintomi ed il quadro clinico con cui si presenta questa malattia neurologica; ora vediamola un po’ più da vicino.

PATOGENESI

La causa della malattia è un’alterazione di una proteina, huntingtina, HHT, una grossa proteina che svolge diverse importanti funzioni dentro le cellule nervose: contribuisce alla struttura e stabilità cellulare come componente del citoscheletro, gioca un ruolo cruciale nello sviluppo del sistema nervoso centrale, ed è essenziale per il trasporto intracellulare di ‘mattoncini’ e trasmettitori (dopamina, ecc.), ma soprattutto l’huntingtina è coinvolta nella formazione e nel mantenimento della sinapsi, il punto di collegamento tra neuroni con cui viene trasmessa l’informazione nervosa.

Infine, e da non sottovalutare l’HTT serve per la sopravvivenza della cellula nervosa ed è coinvolta nei meccanismi che portano alla morte cellulare fisiologica e programmata, l’apoptosi (a differenza della morte cellulare da danno e malattia, la necrosi).

Ora, possiamo immaginarci cosa succede, quando questa importante componente cellulare non funziona correttamente.

E già, siamo alle solite; come sappiamo dalla alfa-sinucleina alterata, la proteina huntingtina mutata si aggrega e forma dei corpi di inclusione intracellulari.

Un mio grafico che ho già proposto in altre occasioni, che vuole illustrare in forma semplificata la sinpasi, cioè il punto cruciale di contatto tra due neuroni, dove avviene la trasmissione dell’informazione neuronale

Vi ricordate i corpi di Lewy pieni di alfa-sinucleina? Ecco, nel caso della huntingtina mutata succede la stessa cosa: siccome gli aggregati di huntingtina mutata sono altamente dannosi per la cellula, quest’ultima si difende raccogliendo questi aggregati in dei sacchi di spazzatura pensandosi momentaneamente salva; ma la mondezza si accumula e finisce per occupare tutta la cellula che infine si deve arrendere. Però, questo è un processo relativamente lento. Ciò che è peggio è, che la proteina alterata non è più in grado di svolgere i propri compiti. E quindi la cellula nervosa avrà problemi strutturali e di stabilità, avrà problemi energetici per il danno provocato ai mitocondri, le centrali energetiche della cellula. Inoltre, il neurone non potrà garantire il trasporto ed il rilascio di neurotrasmettitori e la comunicazione tra i neuroni per l’alterazione delle sinapsi: e con la perdita di neurotrasmettitori e sinapsi la cellula nervosa perde il suo senso di esistere!

 

DIAGNOSI

La diagnosi di Huntington si basa sulla raccolta della storia personale e familiare, e sulla valutazione neurologica; Risonanza magnetica e/o TC cranio saranno utile per escludere altre problematiche neurologiche; con il test genetico si conferma infine il sospetto diagnostico.

 

TERAPIA FRAMACOLOGICA

A tutt’oggi non esiste una terapia farmacologica specifica per la malattia di Huntington, ma ci sono trattamenti sintomatici, come i cosiddetti antagonisti dopaminergici, utili a ridurre gli invalidanti movimenti coreici ma non privi di effetti collaterali, e farmaci dopaminergici, anti-parkinson, che aiutano in caso di rigidità e distonia.

Per le problematiche psichiatrici ci si avvale di ansiolitici, antidepressivi e neurolettici per mantenere il più a lungo possibile una sufficiente qualità di vita.

 

Detta così, la terapia sembra molto deludente, ma nell’ultima parte scopriamo i tanti interventi che si possono adottare per far stare meglio ammalati/e e familiari.

(segue con “MALATTIA DI HUNTINGTON (3)“)

Titolo della recentissima pubblicazione sugli attuali progressi nella ricerca della Malattia di Huntington, del gruppo di ricercatori cinesi intorno a Huichun Tong

MALATTIA DI HUNTINGTON (3) di Kai S. Paulus

(Pillola n. 85, seguito di “MALATTIA DI HUNTINGTON (2)“)

Nel capitolo precedente la terapia farmacologica ci ha delusi; in quest’ultima parte vediamo, che cosa c’é oltre le pastiglie.

TERAPIA NON FARMACOLOGICA

Ci sono tanti interventi a disposizione per garantire una corretta gestione globale delle persone. Vorrei iniziare con il supporto psicologico e psicoterapia: la persona ammalata percepisce il continuo peggioramento e la conseguente riduzione delle proprie autonomie, crescenti difficoltà personali, familiari e sociali, ci si sente soli ed incompresi. Ma anche i familiari necessitano di un sostegno psicologico, hanno bisogno di comprendere e di sapere come aiutare, e necessitano di suddividere le proprie energie per evitare un burn-out.

Essendo l’Huntington anche un disturbo del movimento, i trattamenti riabilitativi e fisioterapici dovrebbero iniziare sin dal momento della diagnosi, e la logoterapia appena si presentano difficoltà nel linguaggio e nella deglutizione.

STILE DI VITA

Anche qui troviamo analogie con il Parkinson: trattandosi di malattie neurodegenerative multifattoriali, anche se la genetica gioca un ruolo fondamentale nell’Huntington, dobbiamo cercare di limitare influenze e con-cause esterne ed ambientali.

  • Dieta: tutte le malattie neurodegenerative comprendono dei meccanismi infiammatori sistemici e neurologici: una alimentazione sana ed equilibrata, con un intestino in salute riduce la neuro-infiammazione con frenata dei processi patologici. Il gruppo di ricercatori statunitensi intorno a Russel G. Wells propone frequenti digiuni per dare all’organismo la possibilità di depurarsi, riducendo la progressione della malattia, ed il gruppo austro-svizzero di Johannes Burtscher ricorda l’importante asse cervello-periferia per cui la correzione dello stile di vita e di alimentazione sono fondamentali per gestire l’Huntington.
  • Attività fisica: essendo l’Huntington una malattia del movimento, è intuitivo che il movimento deve essere alla base di ogni intervento preventivo e di supporto nella sua gestione globale; quindi è bandito uno stile di vita sedentario.
  • Sonno: il buon riposo notturno previene, ritarda e riduce ogni patologia neurodegenerativa, non per ultimo, per l’attivazione del sistema glinfatico, purificatore cerebrale, durante le fasi di sonno profondo.

PROSPETTIVE FUTURE:

La letteratura scientifica internazionale si sta arricchendo di continuo di nuovi studi e progetti per trovare cure efficaci per la malattia di Huntington. Si passa dalle immancabili cellule staminali, molto promettenti nei modelli sperimentali ma ancora difficoltose nell’uomo; dagli anticorpi (vaccinazioni) per eliminare gli aggregati di proteina alterata, ma bisogna risolvere il problema di far arrivare gli anticorpi a destinazione, troppo grandi per passare la barriera emato-encefalica; fino alla futura terapia genica, per riparare definitivamente il danno genetico.

IN CONCLUSIONE:

La malattia di Huntington è ancora una malattia fatale, ma, rispetto a solo pochi anni fa, oggi abbiamo a disposizione tanti strumenti per gestire meglio i sintomi, prolungare il periodo di sufficiente qualità di vita, ed interventi in supporto anche dei familiari e caregiver. Questo fa ben sperare che in questi anni arrivino importanti novità che possano rendere questa malattia molto meno terribile.

 

Fonti bibliografiche:

Burtscher J, Strasser B, Pepe G, Burtscher M, Kopp M, Di Pardo A, Maglione V, Khamoui AV. Brain-periphery interactions in Huntington’s disease: mediators and lifestyle interventions. International Journal of Molecular Sciences, 2024; 25: 4696. doi.org/10.3390/ijms25094696.

Kim KH, Song MK. Update of rehabilitation in Huntington’s disease: narrative review. Brain Neurorehabilitation, 2023;16(3): doi:10.12786/bn.2023.16e28.

Muehlbach A, Hoffmann R, Pozzi NG, Marziniak M, Brieger P, Dose M, Priller J. Psychiatrische Symptome der Huntington-Krankheit. Nervenarzt, 2024; 95: 871-884. doi.org/10.1007/s00115-024-01728-z.

Wells RG, Neilson LE, McHill AW, Hiller AL. Dietary fasting and time-restricted eating in Huntington’s disease: therapeutic potential and underlying mechanisms. Translational Neurodegeneration, 2024; 13(17): doi.org/10.1186/s40035-024-00406-z.

Tong H, Yang T, Xu S, Li X, Zhou G, Yang S, Yin S, Li XJ, Li S. Huntington’s Disease: Complex Pathogenesis and Therapeutics Strategies. International Journal of Molecular Sciences, 2024; 25, 3845. doi: 10.3390/ijms25073845.

Copertina di un attuale corso tedesco online sugli aspetti psicologici e psichiatrici della malattia di Huntington

PRIMA IL CERVELLO O PRIMA IL CORPO? di Kai S. Paulus

(Pillola n. 82)

 

Che cos’è la malattia di Parkinson?

Ma lo sappiamo tutti: un insieme variabile di sintomi motori, quali rallentamento e blocco motorio, rigidità, instabilità posturale e tremore. Giustissimo. E a causa di questi sintomi ci si reca dal neurologo specializzato in ‘disordini del movimento’.

Ma, come sappiamo, Parkinson è anche disturbo del sonno, depressione, dolori diffusi, riduzione dell’olfatto e disturbi intestinali, problemi spesso sottovalutati ed apparentemente non di pertinenza neurologica.

Disturbi intestinali? Ma il Parkinson non era una malattia neurologica?

Certamente, ma la sua origine non è necessariamente il cervello.

Se andiamo ad osservare la distribuzione della causa cellulare del Parkinson, l’alterazione della proteina strutturale e funzionale alfa-sinucleina (vedi ” L’ALFA-SINUCLEINA“), ci rendiamo conto che essa non si riscontra solo nel cervello, ma anche nella mucosa olfattivo del naso e nell’intestino, nel cuore e nella cute.

E c’è di più:

a seconda dove si accumula per prima la proteina alterata, nel cervello o perifericamente, si può distinguere una forma di Parkinson che origina nel cervello (“brain-first”, prima il cervello) ed un’altra che origina al di fuori di esso (“body-first”, prima il corpo), come raccontano gli studiosi danesi Jacob Horsager e Per Borghammer nel loro recente articolo sulla rivista scientifica “Parkinsonism and Related Disorders” (Parkinsonismi e malattie correlati).

Titolo della recente pubblicazione scientifica danese: “Prima-il-cervello versus prima-il-corpo di malattia di Parkinson: un aggiornamento su recenti evidenze”.

Queste due forme di malattia di Parkinson si distinguono, secondo gli autori scandinavi, non solo per distribuzione di alterata proteina, ma anche per sintomi e quadro neurologico.

E quindi:

La forma “prima il cervello” sarebbe caratterizzata da sintomi motori (rallentamento, rigidità, instabilità) e tremore prevalente ad un lato del corpo, con solo occasionale stitichezza, raro disturbo comportamentale del sonno REM, olfatto quasi normale, e buone condizioni cognitive.

Invece, la forma “prima il corpo” si distinguerebbe per la presenza di sintomi motori meno asimmetrici e maggiore instabilità posturale, chiaro disturbo comportamentale del sonno REM, frequente stitichezza, frequente ipotensione ortostatica (calo pressione quando si sta in piedi), e iniziali problemi cognitivi.

I danesi basano la loro distinzione del Parkinson in due entità in base al riscontro di accumulo di alfa-sinucleina nei nuclei della base dentro il cervello nel caso della forma “prima il cervello”, invece nell’intestino, nel cuore e nella cute. In entrambe le forme possiamo trovare proteine alterate nella mucosa olfattiva.

 

Concludendo:

Da queste osservazioni segue, che la forma di Parkinson “prima il cervello” sia dovuta principalmente a predisposizioni e mutazioni genetiche che riguardano le strutture motorie del cervello, mentre la forma di Parkinson “periferico” possa essere ricondotta prevalentemente a cause ambientali (vedi “BUON MICROBIOTA = MENO PARKINSON“).

La conferma di questa suddivisione del nostro rapace infingardo avrà degli importanti risvolti pratici, di cure e di prevenzioni, di cui parleremo sicuramente prossimamente.

 

Fonte bibliografica:

Horsager J, Borghammer P. Brain-first vs body-first Parkinson’s disease: an update on recent evidence. Parkinsonism and Related Disorders, 2024; 122: 106101. doi: 10.1016/j.paerkreldis.2024.106101.

TENNIS TAVOLO – PARKINSON 2:1 di Kai S. Paulus

 

(Pillola n. 81)

Laila Fara mi ha parlato di un campionato di tennis tavolo per persone affette da malattia di Parkinson. Non volevo crederci, ed invece ho scoperto un mondo…

Qualche anno fa è uscito un lavoro di un gruppo di ricercatori giapponesi che hanno studiato gli effetti benefici del tennis tavolo, uno sport molto popolare nel mondo asiatico, sulle persone affette da malattia di Parkinson.

La ricerca giapponese ha rilevato che praticare il tennis tavolo (il “Ping Pong”) può migliorare i sintomi motori del Parkinson, ma non solo: questo sport può migliorare le comuni attività quotidiane di una persona, che vanno dalle solite attività fisiche, camminare, fare le scale, sedersi, alzarsi, ecc. fino alle attività personali (vestirsi, lavarsi, le faccende domestiche, ecc.). Ed infine, gli studiosi asiatici hanno concluso che il “ping pong” è un’attività fattibile e sicura per le persone con Parkinson.

Ma c’è di più:

A partire dal 2019 esiste il campionato del mondo per tennis tavolo per persone affette da Parkinson organizzato dall’associazione internazionale “PingPongParkinson” fondata nel 2017, che ha un significativo logo:

‘We build neurons’, cioè: “Noi costruiamo neuroni”

 

Anche in Italia si inizia a considerare il tennis tavolo come ottima integrazione nei programmi riabilitativi:

Il gruppo della Associazione Parkinson di Como sta organizzando corsi di tennis tavolo e nel novembre 2023 ha organizzato un torneo per i suoi soci e non. L’Associazione Italiana Giovani Parkinsoniani riporta nel proprio sito online di atleti parkinsoniani che hanno partecipato al torneo mondiale “ITTF World Masters Table Tennis Championships” a Roma nello scorso mese di luglio.

 

Ma che cosa rende il tennis tavolo così interessante ed addirittura affascinante?

Come sappiamo, il Parkinson è una malattia che causa rallentamento dei movimenti e dei riflessi, ed il Ping Pong è un gioco che può diventare molto veloce e richiede riflessi pronti. In particolare, il Parkinson disturba l’esecuzione dei movimenti automatici, cioè quelli che, una volta acquisiti, compiamo senza pensarci, come il camminare. Il tennis tavolo, invece, mette il giocatore in ogni momento in una posizione nuova; quindi, niente automatismi e pertanto si supera il Parkinson con schemi motori nuovi e non automatici.

Logo progettato da Ramsha Khan (Fonte: web)

 

Poi, una volta che la persona con Parkinson prende confidenza e riesce a giocare, aumenta la consapevolezza che la malattia non ha sconfitto il corpo che invece può reagire egregiamente, e questo conferisce una enorme spinta psicologica.

Ed infine, non vogliamo mica trascurare il divertimento che come sappiamo benissimo, è dopamina pura.

Insomma, un altro divertente modo per sottrarsi alle grinfie del rapace infingardo.

 

Fonti bibliografiche:

Inoue K, Fujioka S, Nagaki K, Suenaga M, Kimura K, Yonekura Y, Yamaguchi Y, Kitano K, Imamura R, Uehara Y, Kikuchi H, Matsunaga Y, Tsuboi Y. Table tennis for patients with Parkinson’s disease: a single-center, prospective pilot study. Clinical Parkinsonism & Related Diseases, 2021; 4: doi.org/10.1016/j.prdoa.2020.100086

BLOCCARE L’ALPHA-SINUCLEINA di Kai S. Paulus

(Pillola n. 80)

 

Sinora i cosiddetti sofisticati e costosi trattamenti “high-tech”, quali anticorpi, cellule staminali o terapia genica, sono ancora deludenti nella terapia della malattia di Parkinson, mentre con degli approcci “low-tech”, semplici e poco dispendiosi, si possono ottenere riguardevoli risultati. Così esordisce pochi giorni fa sul sito scientifico SpringerMedizin.de il neurologo Thomas Mueller nel suo commento al sorprendente lavoro di Wolfgang Oertel e collaboratori pubblicato appena una settimana fa sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Communications.

Il commento di Thomas Mueller: “Primi indizi: l’aminoacido frena il Parkinson precoce”.

Di cosa si tratta?

Nel lavoro citato da Thomas Mueller vengono descritte due persone con un disturbo comportamentale del sonno REM (sonno agitato, parlantina ed urla durante il sonno, ecc.), senza sintomi del Parkinson, ma con le tipiche alterazioni parkinsoniane all’indagine scintigrafica SPECT DATscan.

 

Come sappiamo (vedi “PREVENIRE IL PARKINSON. PARTE 3: I PRODROMI “) il disturbo del sonno REM fa parte dei cosiddetti “prodromi” del Parkinson e parkinsonismi, cioè una specie di campanello d’allarme che nei prossimi anni la persona possa sviluppare una patologia neurodegenerativa.

 

In questi mesi la ricerca internazionale studia intensivamente questi prodomi, a cui appartengono anche disordini intestinali, riduzione dell’olfatto e anedonia (ridotto interesse a cose piacevoli), perché essi presentano già le tipiche alterazioni della proteina alfa-sinucleina (vedi anche “ L’ALFA-SINUCLEINA“) e pare che curando questi problemi, si possa ritardare l’esordio della malattia, oppure, quando già conclamata, gestirla e ridurla.

 

Quindi, il gruppo intorno a Wolfgang Oertel ha somministrato a due persone con il disturbo del sonno un comune aminoacido, la leucina, in una forma modificata (acetil-DL-leucina, ADLL) per un tempo di 22 mesi.

 

La leucina è un aminoacido essenziale per la salute muscolare ed il metabolismo del nostro corpo e viene assunto con legumi e cereali.

Lo spettacolare articolo del gruppo di ricercatori intorno a Wolfgang Oertel descritto nel testo.

E sapete che cosa è successo?

Dopo 22 mesi di trattamento con acetil-DL-leucina nelle due persone si è normalizzato il riposo notturno (!) ma anche i risultati della SPECT DATscan di controllo (!!!)

 

Verosimilmente la ADLL riduce notevolmente gli ‘scarti’ di alfa-sinucleina e quindi salva i neuroni dopaminergici dal processo degenerativo.

 

Una notizia bomba, vero?

Ora, gli scienziati vogliono confermare i loro risultati con degli studi su una ampia popolazione di persone con prodromi e con sospetto Parkinson.

Se queste ricerche dovessero confermare l’ipotesi di Wolfgang Oertel, allora sarebbe davvero una notizia grandiosa, perché avremmo a disposizione una terapia a basso costo, facilmente reperibile, e senza effetti collaterali.

 

Non vedo l’ora di poter conoscere i risultati di queste ricerche, ma una cosa è certa: la battaglia contro l’odiosa alfa-sinucleina alterata, la causa del dramma del nostro rapace infingardo, è appena iniziata!

 

Fonti bibliografiche:

Mueller T. Verbesserte Biomarkerwerte. Erste Hinweise: Aminosaeure bremst fruehen M. Parkinson. SpringerMedizin.de, Parkinson-Krankheit Nachrichten: 05.09.2024

Oertel WH, Janzen A, Henrich MT, Geibl FF, Sittig E, Meles SK, Carli G, Leenders K, Booij J, Surmeier DJ, Timmermann L, Strupp M. Acetyl-DL-leucine in two individuals with REM sleep behavior disorder improves symptoms, reverses loss of striatal dopamine-transporter binding and stabilizes pathological metabolic brain pattern – case reports. Nature Communications, 2024; doi.org/10.1038/s41467-024-51502-7.

“IL PARKINSON E’ UNA MALATTIA AMBIENTALE” di Kai S. Paulus

(Pillola n. 79)

Il ricercatore statunitense Ray Dorsey ed il suo collega olandese Bastiaan R. Bloem vanno giù pesante nel loro articolo pubblicato sull’ultimo numero della prestigiosa rivista Journal of Parkinson’s Disease: La malattia di Parkinson è prevalentemente una malattia ambientale”.

Stop. Respiriamo profondamente.

L’articolo apre subito col botto: “Nel 1817 dott. James Parkinson descrive sei individui con una nuova malattia. Due secoli dopo si stimano oltre sei milioni di persone affette da malattia di Parkinson”.

Stop. Un altro respiro profondo.

Il Parkinson è una patologia neurodegenerativa che presenta una crescita esponenziale negli ultimi decenni, 1) per il miglioramento della capacità di fare diagnosi grazie alle maggiori conoscenze scientifiche e per l’avanzamento della diagnostica strumentale (RM, SPECT, PET, panel genetici), 2) per l’aumentata aspettativa di vita, e 3) grazie alla scoperta delle mutazioni genetiche coinvolte nella genesi del Parkinson.

Questi tre punti rappresentano i dogmi fermi dell’attuale spiegazione scientifica della crescita di prevalenza del Parkinson.

“La malattia di Parkinson è prevalentemente una malattia ambientale”.

Però, Dursey e Bloem smontano questi dogmi uno dopo l’altro:

  • Miglioramenti diagnostici: certo, oggi abbiamo strumenti molto sofisticati per fare diagnosi, la risonanza magnetica di ultima generazione, le scintigrafie SPECT e PET, i panel genetici, ma queste migliorie riguardano tutte le malattie, mentre le patologie neurodegenerative, e soprattutto il Parkinson, stanno galoppando molto più di altri;
  • Aumento dell’aspettativa di vita, cioè, logicamente vivendo più a lungo è più probabile di contrattare il Parkinson. Giusto, ma non per la vecchiaia come sostiene la scienza internazionale, ma, sostengono i due provocatori, per il fatto che più a lungo si rimane su questa terra più a lungo si è esposti ai fattori ambientali, quali inquinamento dell’aria, dell’ambiente e dell’acqua, sofisticazione alimentare, prodotto chimici industriali;
  • La genetica, che oggi viene chiamata in causa molto volentieri per spiegare l’incredibile aumento del Parkinson. Ma, le comuni mutazioni genetiche coinvolte nella genesi del Parkinson rappresentano appena il 2% di tutte le cause, e poi, le classiche mutazioni di GBA, PARK, PINK, LRRK2 e così via ci sono nel genoma umano da migliaia di anni, quindi non possono giustificare l’aumento del Parkinson negli ultimi decenni; pur tuttavia, esse rappresentano una certa suscettibilità, cioè vulnerabilità, detta anche predisposizione genetica, che con certe circostanze, per esempio fattori ambientali, possono essere slatentizzate, svegliate, e portare a malattia (“cane che dorme…”).

Insomma, roba forte, non facile da digerire e comprendere.

Gli autori concludono quindi, che non diagnostica strumentale, età e genetica, stanno alla base dell’esponenziale crescita di casi di Parkinson negli ultimi decenni, ma i fattori ambientali chimici, pesticidi, conservanti, coloranti, ecc., che tutti noi assumiamo quotidianamente; e chi porta con sé delle alterazioni genetiche, di per sé silenti, esse possono essere attivate da certi fattori ambientali e dare inizio alla patologia neurodegenerativa, destinata ad incredibile crescita nei prossimi anni. Al contrario, riducendo i fattori ambientali nocivi, allontanandoci da allevamenti intensivi e dal bruciare fossili (petrolio, gas, ecc.), si riduce automaticamente l’incidenza delle malattie neurodegenerative, innanzitutto la malattia di Parkinson.

 

L’articolo è sicuramente provocatorio, però ci deve far riflettere; ciò che mangiamo, beviamo e respiriamo non è certo salute pura (invece per definizione dovrebbe esserlo!)

 

Fonte bibliografica:

Dorsey ER, Bloem BR. Parkinson’s disease is predominantly an Environmental Disease. Journal of Parkinson’s disease, 2024; 14: 451-465. doi: 10.3233/JPD-230357

BUON MICROBIOTA = MENO PARKINSON di Kai S. Paulus

(Pillola n. 78)

Quando una prestigiosa rivista scientifica come “Frontiers in Pharmacology” si occupa della salute dell’intestino e propone strategie non farmacologiche contro la malattia di Parkinson, allora bisogna riflettere.

 

Da molto tempo ci stiamo occupando della corretta alimentazione e della salute dell’intestino (vedi “PARKINSON E MICROBIOTA”, ed anche “IL RUOLO DEL MICROBIOTA NEL PARKINSON”); addirittura abbiamo contribuito a delle ricerche universitarie e collaborato a delle tesi di laurea sul tema dell’alimentazione nel Parkinson (vedi “AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA”). Infine, abbiamo cercato di dare utili consigli di una buona alimentazione (vedi “SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO”, oppure anche “IL PARKINSON SI COMBATTE A TAVOLA”), e diretti l’attenzione sull’importanza della prevenzione e cura del Parkinson mediante una buona salute intestinale (vedi “PREVENIRE IL PARKINSON. PARTE 3: I PRODROMI”).

 

Ora, nell’appena pubblicato lavoro di ricercatori dell’Università di Pisa, il gruppo intorno alla dott.ssa Laura Benvenuti e Prof. Matteo Fornai riassume le attuali conoscenze del vitale collegamento tra cervello e intestino, e presenta varie strategie per ottimizzare la flora gastrointestinale, il microbiota, al fine di prevenire e curare la malattia di Parkinson.

Titolo della pubblicazione del gruppo italiano di Laura Benvenuti e colleghe e colleghi: “Terapia della malattia di Parkinson mirata all’intestino”.

L’intestino, con il suo microbiota, produce sostanze essenziali per la salute del cervello, come i neurotrasmettitori serotonina, noradrenalina, ed in piccola parte anche dopamina, e sostanze neuroprotettive ed antiinfiammatori.

In caso di malattia, le funzioni digestive e protettive intestinali non sono garantite, e tutto l’organismo soffre.

Si è visto, inoltre, che in alcuni casi il Parkinson inizia nell’intestino, cioè gli aggregati di alfa-sinucleina, i corpi di Lewy, si formano nei plessi nervosi dell’intestino, e negli anni migrano attraverso il nervo vago verso il cervello, dove, una volta raggiunti i nuclei della base, causano rallentamento motorio, rigidità, tremore, ecc.

Può capitare che un’alimentazione non equilibrata causi una alterazione del microbiota con prevalenza di germi patogeni e processi infiammatori che quindi predispongano alla formazione di proteine alterate, che si aggregano e formano corpi di Lewy.

 

Domanda: “Considerata la vitale importanza del microbiota, come possiamo tenere in buona salute l’intestino?”

Risposta: “Con una alimentazione ricca di fibre, verdure, frutta e cereali.”

 

In mancanza della possibilità di potersi alimentare correttamente e di assumere le sostanze giuste, possono aiutare:

  • Prebiotici: fibre alimentari non digeribili, fermentati da alcuni ceppi di batteri, come i Bifidobacteria, con la produzione di acidi grassi a catena corta (acido butirrico, acetato e propionato) che esercitano effetti benefici sulla mucosa intestinale, e posseggono effetti antiinfiammatori, neuroprotettivi, e neurotrofici contrastando la neurotossicità
  • Probiotici: microorganismi vivi (Clostridium butyricum, Akkermansia, Bifidobacterium breve, Lactobacillus), sempre con effetti neurotrofici, neuroprotettivi ed antiinfiammatori
  • Sinbiotici: la combinazione di pre- e probiotici.
  • Trapianto di microbiota fecale: inserendo del microbiota fecale di donatori sani, per colonizzare l’intestino con germi e batteri utili ri-equilibrando il rapporto tra microorganismi buoni e cattivi. (curiosità: in laboratorio si creano modelli animali di Parkinson infettando l’intestino delle cavie con materiale fecale parkinsoniano)

 

Secondo un altro studio del gruppo della ricercatrice olandese Indy van der Berg, l’alimentazione nel Parkinson è importante per almeno tre motivi:

  • Fattori dietetici giocano un ruolo nella fase preclinica determinando il rischio di sviluppare la malattia in modo positivo o negativo in base alla qualità dell’alimentazione
  • Il cibo può modulare l’assorbimento della levodopa e regola l’attività peristaltica dell’intestino
  • L’alimentazione può modificare il decorso della malattia incidendo sulla funzione mitocondriale (la centrale energetica delle cellule), sull’infiammazione centrale (causata dalla malattia cronica), e sulla risposta immunitaria (la capacità dell’organismo a difendersi)

Sia il gruppo italiano che quello olandese scelgono la dieta mediterranea come l’alimentazione ottimale per ottenere i benefici sopraesposti.

Ma sorge una domanda spontanea: “visto che tutto il mondo ci invidia della nostra dieta mediterranea, così gustosa e salutare, come mai proprio in Italia abbiamo la stessa incidenza delle malattie neurodegenerative come in altre parti del mondo?”

Altre domande: “quindi, non è vero niente? Pomodori, sedano e grano non ci proteggono? O forse, il massivo utilizzo (legale!) di pesticidi, antibiotici, ormoni, conservanti e coloranti frena i potenziali benefici del cibo?”

Risposta: “Belle domande, molti dubbi, ma ne parleremo di sicuro prossimamente”.

 

Fonti bibliografiche:

Benvenuti L, Di Salvo C, Bellini G, Seguella L, Rettura F, Esposito G, Antonioli L, Ceravolo R, Bernardini N, Pellegrini C, Fornai M. Gut-directed therapy in Parkinson’s disease. Frontiers in Pharmacology, 2024; doi: 10.3389//fphar.2024.1407925.

Van der Berg I, Schootemeijer S, Overbeek K, Bloem BR, de Vries NM. Clinical Trial highlights: dietary interventions in Parkinson’s disease. Journal of Parkinson’s disease, 2024; doi: 10.3233/JPD-230366.