Volare si Può, Sognare si Deve!

Curiosità

Riapre Casa Park

 


Dopo oltre un anno di chiusura quasi totale (salvo necessari interventi assicurati da Tonino)

RIAPRE CASA PARK.

Riapre le porte per accogliere a braccia aperte i soci, sempre più numerosi, 
che fanno parte dell’Associazione Parkinson Sassari ONLUS.
Dopo un anno triste caratterizzato dai danni seminati qua e là dalla Pandemia
si è deciso per la riapertura 
anche perché particolari condizioni hanno facilitato questa favorevole circostanza.

Spazio verde all’ingresso

Che, oltre all’apertura, prevede la presenza costante di una persona in grado di tenere
viva una casa che rischiava di decadere senza essere vissuta.
Da qualche giorno Gian Paolo Frau che, ormai da anni, ha creato e segue
il sito della nostra associazione, si é reso disponibile a proseguire questa
attività garantendo la sua presenza in casa Park.
Tale disponibilità consentirà a ciascuno di noi di riprendere i contatti con la nostra casa.
In tal modo potremo approfittarne per cominciare a versare le quote sociali
e stabilire di nuovo quei rapporti umani che tanto ci sono mancati.
Per iniziare gli orari di ricevimento saranno i seguenti:
tutti i giorni della settimana, previo appuntamento telefonico al nr. 079 6768711,
al mattino dalle ore 10,30 alle 12,30 – al pomeriggio dalle ore 17,00 alle 18,30
Ci sostiene la speranza di poterci ritrovare insieme, in amicizia, finalmente
liberati dai condizionamenti del Corona virus.
Il Presidente
Franco Simula

Per chi non era presente all’inaugurazione:

Cronaca di una battagliola con le formiche 26-02-2021 – Testo di Franco Simula


Era da tanto che non scendevo in giardino . L’occasione mi fu offerta casualmente dalla necessità di dover assistere l’autista che guida la macchina per il rifornimento periodico del gasolio per il riscaldamento.

Concluse le operazioni, in mezzo all’erba già cresciuta, l’erba della primavera ormai alle porte, vidi per terra, mezzo sepolti nel verde, dei bei mandarini che il vento dei giorni scorsi aveva stracciato dai rami con violenza ne raccolsi alcuni in una ciotola senza curare di verificare la loro integrità.
Dopo un controllo più accurato notai che le forti folate di vento avevano sbattuto violentemente per terra i mandarini e ne avevano squarciato le bucce. Naturalmente io volevo gustare i mandarini del giardino, quest’inverno non li avevo ancora assaggiati, provai a sbucciane qualcuno e con grande sorpresa li trovai invasi di formichine che, attraverso gli squarci nelle bucce, avevano trovato un varco comodo per insediarsi all’interno sicure di trovare vitto e alloggio gratis a portata di bocca. La mia reazione istintiva fu quella di schiacciarne una, due: .dio ne scampi! Fu un istantaneo passa-parola fra i piccoli insetti che cominciarono, quasi impazziti, a cercare le più svariate vie di fuga. Le formichine che si trovavano raggruppate per “famiglie” in punti diversi, si sparpagliarono immediatamente sul tavolo dove avevo deposto i mandarini facendomi presagire una possibile invasione per tutta la casa. In fretta e furia spostai i mandarini dentro un lavandino per poter dominare meglio l’invasione ma il risultato non migliorò di molto: le formiche continuavano a scappare dappertutto, disperate, alla ricerca di una via di fuga liberatrice . Cercavano di aggrapparsi alle pareti lisce del lavandino ma inesorabilmente scivolavano giù e quindi dovevano ritentare la risalita, più e più volte, ma sempre con lo stesso risultato. Un supplizio di Tantalo adattato alle formiche. L’idea di schiacciare le formichine non mi stava più bene, mi sembrava una soluzione facilona e poco dignitosa, allora pensai di aprire il rubinetto dell’acqua in modo da poterle convogliare nel canale di scolo e farle scomparire. Ma in questo modo – pensai – non è che evito di ucciderle ma addirittura finisco col praticare un’ecatombe di formichine colpevoli soltanto di esser penetrate incautamente dentro una possibile nuova abitazione provvista di tutti i confort. Tuttavia non mi sentivo responsabile di tanta malvagità perché – pensai – costruiscono le loro tane sotto terra, al buio, dove addirittura raccolgono le provviste, quindi se io le faccio scivolare attraverso un canale di scolo non solo gli risparmio una morte violenta e immeritata ma fornisco loro una inaspettata riserva di acqua che in certi periodi di siccità può anche far comodo e inoltre le rituffo al buio, sotto terra, in un habitat che già conoscono.
La storia iniziata in maniera violenta finisce con un sostanziale armistizio: loro cercando di adottare una sorta di resilienza (che in tempi di corona virus non fa male neppure alle formiche) ed io cercando di ricuperare qualche spicchio residuo di mandarino da gustare. Che, a dirla tutta, potevo cogliere comodamente dall’albero a portata di mano: invece no, mi ero impuntato ostinatamente a voler assaggiare uno, due spicchi dei mandarini trascurati dalle formiche per confrontarli con quelli che alla fine colsi dall’albero. Le formiche avevano scelto meglio: erano più dolci.
( f.s.)


In un testo del 1966 si parla di Parkinson

Testo tratto da Manuale di Medicina di Ulrico di Aichelburg. Pubblicato nel 1966.
Dopo aver letto la pagina sul Parkinson ho commentato ironicamente : vogliamo provare anche noi questa terapia?
Francesco Simula

 

UNO SPLENDIDO PESCE D’APRILE di Franco Simula

Il 14 marzo 2018 segna una svolta nell’annosa questione dell’ambulatorio Parkinson. Convocati dal dott. Pintor e dal dott. Licheri, in rappresentanza dei direttori generali dott. Moirano e dott. D’Urso, al presidente e alla vicepresidente della nostra Associazione viene data lettura della convenzione intercorsa tra Ats Sardegna e l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Sassari per assicurare la gestione di un percorso clinico assistenziale a favore dei pazienti affetti dal morbo di Parkinson e malattie correlate. La convenzione prevede anche che l’Aou di Sassari metta a disposizione, a supporto dell’attività dell’Azienda Tutela della Salute, un dirigente medico neurologo, identificato nella persona di Kai Stephan Paulus, che da anni si occupa della malattia di Parkinson e pertanto rappresenta un punto di riferimento per i pazienti e le relative famiglie.

Si tratta, finalmente, di un ambulatorio dedicato esclusivamente al Parkinson e ai disturbi del movimento, mettendo fine allo stillicidio degli appuntamenti rimandati, quando si era fortunati, da un mese all’altro, e in mancanza di un intervento tempestivo, intasando il Pronto Soccorso o ricorrendo al ricovero. Con i costi umani ed economici che purtroppo molti di noi hanno dovuto sperimentare.

Il 14 marzo, dunque, ci viene annunciata la data di partenza del nuovo ambulatorio al 1° aprile. Possibile, proprio il 1°aprile ? che, guarda caso, è il giorno di Pasqua ? Non sarà un pesce d’aprile, o uno scherzo feroce? Nei vari incontri tra una nostra rappresentanza e i massimi dirigenti della Sanità della Sardegna, questi si sono mostrati sempre sensibili e disponibili ad affrontare e risolvere il disagio connesso alla mancanza dell’assistenza sanitaria continuativa indispensabile a pazienti cronici e con malattie neurodegenerative come la nostra. Tale disagio si era manifestato in svariate occasioni in conferenze stampa, articoli sui principali quotidiani e su alcune tv locali. Le assicurazioni dei Dirigenti Sanitari, però, non trovavano una concreta attuazione in tempi secondo noi ragionevoli, ma considerando tuttavia che il provvedimento che ci riguardava era solo uno delle centinaia di delibere da adottare, abbiamo tenuto viva la fiammella della speranza…e poi, ecco, finalmente l’ambulatorio Parkinson: veramente uno splendido pesce d’aprile.

Nonna Manghini – Testo di Egle Farris


Oggi la mia amata metà ha preparato le mezze maniche al pomodoro …..
E il ricordo è tornato vivissimo e presente dopo più di mezzo secolo.
Nonna Manghini lavorava con una mano e mezza. L’altra mezza che le restava era sempre impegnata in “unu pittigu ‘e tabaccu “.
Perchè nonna era una delle ultime fra le donne del suo tempo che tabaccava. Rammento le sue due tabacchiere con il ” Sun di Spagna” e quel famoso rumore, tipo “clic clac”. Una tabacchiera che ricordo, forse, di corno con un tappo di consunto sughero e che appariva e spariva con gesti di maestria e magia da una tasca di quella gonna quasi lunga con la larga arricciatura, di colore sempre scuro a minuscoli fiorellini bianchi.
Nonna Manghini non possedeva grandi cose,ma teneva un bel comò, di quelli una chiave e quattro cassetti. Nella sua stanza era a destra, entrando, ed il primo cassetto era la grotta di Alì Babà per noi nipoti. Intanto le ostie. Perchè al tempo i farmaci, quasi sempre in polvere, venivano avvolti in un’ostia a formare i famosi, come diceva lei, “cascè” . Ma a noi piacevano solo le ostie , per l’appunto e le rubavamo in gran quantità, nascondendoci da qualche parte per sgranocchiarle. E quando se ne accorgeva ,noi eravamo belli che spariti ……
E poi quel barattolo di vetro pieno di polverina marrone, che altro non era che le spore di un fungo delle querce, la vescia, che era la panacea delle sbucciature delle ginocchia. Ci veniva elargita come polvere magica che faceva scomparire tutte le “bue” in un lampo di tempo, ma in effetti non aveva altra funzione che asciugare un pò di sangue. Meno male che la natura che protegge i bambini aveva disposto per noi miliardi di anticorpi ,se no quella polverina ci avrebbe spedito all’altro mondo per fare, come si diceva allora, la coroncina di angeli alla Madonna …….
E le mezze maniche ? Che c’entrano, vi state chiedendo …
Calma, ci arrivo …………
Le narici penso le avesse paralizzate, tipo gli odierni cocainomani , non doveva più sentire odori o profumi, olezzava sempre e solo di tabacco. E fu così che una volta, non avevo più di otto-nove anni, mia madre partì e lei, nonna, venne un giorno ad aiutare il figlio, mio padre, e preparare il pranzo .
E facemmo tutti e tre , babbo, Laerte ed io una rigorosissima giornata di dieta. Tutto sapeva di tabacco, ma il peggio furono le mezze maniche con “sa bagna “, che non era rossa come i pomodori di allora, ma aveva un bel color castagna che ci fece rabbrividire . E rimasero tutte tutte lì quelle mezze maniche , desolatamente abbandonate col loro sugo marroncino nel piatto, con la scusa che non avevamo fame ……
Una signora col rossetto                                                         Egle Farris


 

Luisa alla Cappelleria Premoli


…..Dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto, una domenica di dicembre alle ore 8:30 Luisa apre gli occhi senza lamentarsi di alcun dolore, dopo alcuni passi un po incerti, un salutino appena accennato da un gesto con la mano, si avvicina a me con l’intenzione di farsi coccolare e in quel momento mi comunica che quella era la giornata ideale per andare a trovare Stefania….. Le preparo la colazione e dopo circa un’ora ancora era seduta che le mancava da bere la spremuta d’arancia…..sono le 10:00 e finalmente é pronta per entrare in bagno, ma, fra un paio di stoviglie da sistemare in lavastoviglie, far le coccole a Peter il barboncino, solo alle 10:30 prende possesso del bagno. Io l’ho lasciata tranquilla nelle sue faccende e mi sono dedicato all’aggiornamento del sito della nostra Associazione, quando mi siedo al computer perdo la cognizione del tempo e intorno alle 12:00 mi alzo dalla sedia e vado a verificare a che punto é la preparazione di Luisa, come mi vede mi chiede: “sei pronto”? Mi scappa da ridere perché io ero già pronto dalle 7:30, mi mancava da infilarmi il giaccone e uscire di casa, anche Peter non vedeva l’ora di uscire, Luisa mi dice che le manca di mettere un po di trucco ed anche lei sarebbe stata pronta, ma alla luce dei fatti reali, mi sento in dovere di ricordarle che mezzogiorno é già passato da un po e che ci saremo ritrovati al centro di Sassari probabilmente per le 13:00, ha fatto finta di non sentirmi ed ha continuato nel suo intento, cerco di essere paziente e mi siedo sul divano del salone ad ascoltare “La marcia al supplizio di Berliotz”. Sento che mi chiama per chiedermi se ho visto i sui occhiali (quali?) il primo paio che trovo glielo avvicino e per mia fortuna ho azzeccato….. Sono le 12:45 e mancano solo le scarpe ed il suo cappotto, tiro un respiro di sollievo ma solo per metà perché lei mi chiede: “secondo te che borsa uso”? Faccio l’indifferente e le rispondo che può usare la stessa borsa del giorno precedente, ma non é così semplice perché lei aveva già deciso che non sarebbe stata la stessa borsa del giorno prima; la vedo che armeggia e trasferisce parte del contenuto nella borsa designata…..Ho già aperto la porta di ingresso e siamo pronti per uscire io ho indossato la mascherina e Luisa no!…..ora che abbiamo tutto in regola non ci resta che chiuderci la porta dietro le spalle ed andare a prendere la macchina. Non c’é traffico per cui in un tempo breve arriviamo di fronte al teatro Verdi dove troviamo un parcheggio, siamo fortunati e vicini alla cappelleria. Nel periodo natalizio i negozi di Via Luzzatti sono quasi tutti aperti e davanti al negozio di Stefania ci sono due persone che aspettano il loro turno, Luisa coglie l’opportunità di allontanarsi per vedere le vetrine degli altri negozi e si intrattiene a chiacchierare con la titolare di un negozio che conosceva da tempo…….intanto la fila si riduce ed i prossimi ad entrare dovremmo essere noi, ma quando è arrivato il nostro turno Luisa non era più in vista e quindi sono stato costretto a cedere il posto ad un’altra persona dietro di me……chiamo Luisa al telefono ma non risponde, fra me e me penso che dovrò cedere il posto anche ad l’altra persona che era in coda dietro di me……così é stato perché Luisa non era visibile. La voglia di andare via é stata grande, ma eccola che compare giusto in tempo perché, chi ci ha preceduto, stava andando via. Finalmente siamo all’interno della cappelleria, Stefania mi saluta e io le presento Luisa e di li a poco iniziano le misurazioni e la scelta del modello più adatto; questo no, quest’altro nemmeno, quest’altro é bello ma non mi piace il colore dice Luisa, Stefania si fa in quattro per mostrarle quanto di meglio ha…… io nel frattempo faccio una dovuta considerazione: oggi no, ma nel caso dovessi acquistare un cappello per me, saprei cosa scegliere, farei molto veloce….. Dopo una mezz’ora abbondate ed un cumulo di cappelli multicolori sui tavoli, Luisa si sofferma su due modelli molto adeguati al suo fisico minuscolo e alla sua personalità; una cuffia molto carina di colore grigio con un bel fiore in seta dello stesso colore e l’altro che rassomiglia ad una papalina rosso ciliegia con un bordino nero che può piegare verso l’alto e non sembra più una papalina. La scelta dei due si é protratta per un bel po, ma poi alla fine la scelta é caduta sul cappellino rosso nero, esattamente quello della fotografia e Stefania finalmente ha potuto tirare un sospiro di sollievo……Anche questa volta penso che sia veramente difficile fare un bel regalo alla propria moglie, più di ogni altra cosa se a sceglierlo é proprio lei…. Gian Paolo Frau

Un Natale. 1948 – testo di Egle Farris

Natele 1948

Al mio paese era il presepio che si preparava . Con molto muschio,due o tre ceppi, farina e cartapesta . Rami di lentisco e alloro formavano il verde e c’era chi metteva sempre un pezzetto di specchio sotto un ponte sbilenco . Le pecorelle erano sempre bipedi ,tripodi nel migliore dei casi . E seguivano improbabili caldarrostai e corpulenti ostesse ,lavandaie e ciabattini . E se il muschio era umido,la mattina appresso le statuine erano che belle e spappolate , essendo di cartapesta.
La mia famiglia preparava però anche l’albero ,novità stravagante,fuori da ogni canone e non in linea coi principi cristiani . L’albero consisteva in un gruppo di rami di pino ,abeti manco l’ombra al mio paese ,desolatamente piangenti verso il basso . E si tiravano fuori, gelosamente conservate ,palline di vetro così sottile che bastava un sospiro per farne mille pezzetti di cielo , e si alternavano a mandarini profumati legati con la rafia e , delizia ,cioccolati dalle forme inusuali e mai viste . Pipe , bottigliette di spumante , biscotti , babbi natale, pecorelle e pigne e tutto era lucente di incarti di iridate stagnole . Sadismo ,puro sadismo era . Non potevamo toccare nulla sino alla sera della vigilia ,dopo cena , quando da un cappello venivano estratti bigliettini col nome di quelle delizie . I vecchi della famiglia avevano spesso una coperta addosso ,il riscaldamento consisteva in un camino ed una goffa col bracere ,che bruciava le gambe di macchie color vino . Sulla tavola fichi accoppiati con la mandorla dentro, melograni che si erano addobbati da soli con le loro corone , torroncini quadrati colla scatola che riproduceva i dipinti di Leonardo ,il croccante di mandorle e zucchero brulè ,le teriche e i papassini . Col lanternino della mente cerco quelle frittelle aromatiche di buccia candita, accompagnate dai rosoli colorati e quei grappoli d’uva leggermente aggrinziti ,ma soavi ,che scendevano dalle soffitte . Così come ritrovo anche le fettuccine col sugo di carne ,il brodo di gallina con i quadrucci che si consumavano l’indomani a pranzo , pranzi semplici ed ingenui .Non avevamo l’abitudine della messa di mezzanotte , quel latinorum allora sconosciuto ed incomprensibile non piaceva a mio padre . Si mangiava ancora qualche castagna che bruciava nelle braci ,si giocava a tombola coi fagioli , si raccontavano “sos contos” e si andava quindi a dormire pensando ai regali del giorno appresso. Che veniva presto , prestissimo , in una camera gelida odorosa di pino , dove la magia consisteva nello scartare poveri doni ,come un mastello di legno con marmellata di albicocche e un tralcio di confetti (celesti ! forse gli unici trovati) e amaretti avvolti da carte colorate e trasparenti con un grosso fiocco . Sono grata alla mia memoria perchè risento dietro le palpebre suggellate , sapori e profumi spariti nelle nebbie del tempo , rivedo le mille e mille scintille fuggenti dai diavoli dei bracieri nella notte buia e fredda , quando anche le vie parevano stringersi l’un l’altra per scaldarsi ad un tepore che non sarebbe potuto venire . E tutto questo è rimasto in pochi angoli di me , remoti ed inaccessibili , non ancora perduti ,ma irrimediabilmente avvolti nello scorrere di un tempo esistente solo nelle mie nostalgie .

Santo Stefano
Spalancai gli occhi dal sonno .Tre anni , avevo tre anni,e la ricordo ancora, seduta davanti a me . I capelli più biondi che avessi mai visto ,occhi cerulei aperti e curiosi ,labbra rosse e un vestitino bianco di lana pesante . Le presi la mano liscia, la toccai , gesù non mi sembrava vero , io sempre sola avere una compagnia . Non ci lasciammo più . Mi seguiva silenziosa ed io mostravo a tutti quanto mi voleva bene .Offrivamo il thè alle signore (acqua tiepida zuccherata ) in un minuscolo salottino di vimini e cioccolato nero americano e farina lattea ,dolce e soffice. Anche a tavola stavamo vicine ed amavamo gli stessi cibi e correvamo in quelle stanze dai tavolati cigolanti ed inquietanti e guardavamo sotto quei letti altissimi, allegre e ridenti e correvamo via veloci ,quando da un enorme quadro Santa Lucia ,con gli occhi in un piatto ed un viso devastato dal dolore , ci spaventava ed atterriva . E allora tornavamo a rifugiarci nel rassicurante confortante salottino di vimini . E quel giorno d’inverno , che fioccavano falde morbide fitte fitte , fittissime ,e bioccoli spumosi ed ovattati e giocare in quelle buie, gelide stanze , sterminate al nostro metro di bambine , non ci era permesso, quel giorno di S.Stefano ,dicevo ,che eravamo tutti in cucina , grande cucina , paludate con grossi maglioni di lana pungente di fronte ad uno scoppiettante camino con ceppi d’ulivo ardenti , lei si staccò dalla mia mano e cadde. Con gli occhi che fuggivano fulminei ,cadde , ed in lampo di ciglia,la vidi attraverso un velo di lacrime, diventare un grumo nero, colloso ed opaco, la mia bambola adorata che quando la giravi sul dorso abbassava le palpebre e pronunciava l’unica sempre uguale , solitaria parola , dondolante e sfumante . Nanaiiiiiiiiiii …… Nanaiiiiiiiiii ……. Nanaiiiii…… aiiiiii …..aiii….iiii..

Una signora col rossetto

Egle Farris


MODA PER CASO

Franco Simula e Kai Paulus

Cinque “testimonial” della nostra Parkinson Sassari

(per gentile concessione di Cappelleria Premoli Sassari)

 

 

Tempo di castagne – testo di Egle Farris

Tempo di castagne - testo di Egle farris

Venivano al mio paese quando cominciavano i primi freddi. Un mulo macilento e affamato che implorava una sosta, e un carretto, che una volta doveva essere stato dipinto di giallo, pieno di sacchi di castagne. Lui, lunga barba, piccolo e secco con pantaloni rattoppati con decine di ritagli di stoffe diverse, che probabilmente ed inizialmente dovevano essere stati di fustagno, lei con un vecchissimo costume dalla caratteristica cuffietta, forse di Desulo, ancora più secca di lui. Andavano di paese in paese , vendendo quelle castagne raccolte con fatica ,mangiando poco e dormendo meno, perché le tettoie e le stalle dove si accampavano la notte dovevano essere gelide e respingenti . Oltre che vendere castagne, riparavano ombrelli e, piatti rotti , smerciavano umili oggetti di legno, mestoli, colini. Lui aveva un sacco con fili di ferro, ritagli di stoffe, aghi, ombrelli vecchissimi da cui ricuperare pezzi di ricambio. Testardo, rattoppava. cambiava stecche ossidate, manici mutilati o amputati del tutto in ombrelli neri o verdi, quelli enormi allora usati dai contadini. E ai poveracci che gli davano lavoro riparava anche piatti, zuppiere, vassoi di terracotta. Univa i vari cocci, dopo aver fatto due buchetti col ” girabacchino “, con un mastice bianchiccio e una graffa che presto sarebbe arrugginita, rendendo quelle stoviglie ancora più brutte e deturpate.
E tutti si affollavano attorno, poveri da una parte, miseri dall’altra e seguivano gesti lenti, precisi e caparbi, fatti con serietà ed impegno che avrebbero reso quegli umili utensili ancora utilizzabili, perché allora nulla veniva buttato, tutto riciclato sino ad una fine non più rimandabile.  Vita grama che si esauriva in ogni paese dove si fermavano dopo qualche giorno dall’arrivo, con un lavoro misero, spesso pagato solo con fieno per il mulo e una notte in una stalla o pane e formaggio che non rifiutavano mai e che veniva segnato da innumerevoli segni di croce. E se ne andavano, sfiniti e poveri come erano arrivati, umile vita itinerante per vie lontane e sparivano sino all’anno successivo, sparivano oltre quella curva della vecchia fontana, giù giù……. alla fine del paese……….

Una signora col rossetto                         Egle Farris


 

Ricordi – Testi di Giannella Cossi


Cara Egle, mi sono sempre piaciute le storie d’amore, e i tuoi ricordi sono permeati di una dolcezza talmente struggente che destano in me una tempesta di emozioni perché mi riportano tutte insieme le stagioni della mia vita. Forse dovrei dire della “ nostra” vita, credo che molti dei nostri amici più o meno coetanei abbiano vissuto gli anni del dopoguerra, qualcuno anche gli ultimi del periodo bellico.

Sapessi che piacere ho provato nel leggere le testimonianze della vecchia Sassari fatte da Tore Faedda, come nel racconto dei blocchi di ghiaccio scaricati dai ragazzini a Porta Macello e inviati ai negozi o alle case dei fortunati che avevano il mobiletto per tenere il ghiaccio, le descrizioni di una vita semplice ma dignitosa di un’infanzia trascorsa nel cuore del centro storico di Sassari. Anche Tonino Marogna è una fonte inesauribile di quella stagione, in un quartiere diverso di Sassari, l’ho sentito raccontare a voce le sue memorie che abbracciano diverse età della sua vita, dall’immediato dopoguerra allo sviluppo della Petrolchimica  e oltre.

I miei ricordi sono divisi a metà: da una parte la vita nel paese del mio cuore, Nulvi, dove sono nata nel ‘45, dall’altra il centro di Sassari, nella via del vecchio Ospedale di Piazza Fiume nel rione di San Giuseppe, dove i miei genitori si sono trasferiti dal paese quando io avevo tre anni e mio fratello Carlo era appena nato.

Per mia fortuna, tutte le estati della mia infanzia le trascorrevo in paese dai nonni, che si caricavano a turno di quattro nipoti, due per volta, aiutati dall’ultima sorella di mia madre, che faceva la sarta ed era rimasta “zitella”.

Ho conosciuto di persona quella che nei libri di storia viene definita “economia curtense”, cioè un’economia chiusa dove si dispone solo di ciò

che è autoctono, che si produce in loco.

Il cibo era semplice: pane e pasta fatti in casa, perchè tutti avevano la provvista di grano che all’occorrenza andavano a macinare al mulino,  dolci alle feste, latte e formaggi oggetto di baratto, frutta, verdura e ortaggi di stagione, legumi essiccati; a ciò si aggiungevano una gallina o qualche pulcinotto, che di giorno razzolavano nei vicoli e di notte si ritiravano in una stia a forma di una rozza scala all’ingresso delle case più povere  o nelle stalle dove si allevava il maiale con gli avanzi della famiglia.

L’uccisione del maiale era un momento di grande socializzazione perché amici e vicini partecipavano alla lavorazione e conservazione delle varie parti dell’animale, come il lardo sotto sale, la carne essiccata e le salsicce, mentre le parti molli e il sanguinaccio si consumavano in un gioioso banchetto.

Nel paese c’era una sola macelleria, e quando macellavano un bue o una mucca il banditore ne dava l’annuncio con la sua tromba per le strade.

C’era un solo spaccio dove si trovava un po’ di tutto, compreso lo zucchero e il caffè in grani da macinare; ogni tanto passava un uomo su un asino che gridava: “aiò assu sale e sa salippa” che ci portava il sale, e anche uno che vendeva “ bisaru, giarrette, saldina” . Ricordo un uomo che riparava le anfore, i vasi di coccio e le giare: praticava dei fori fra le due parti da congiungere e dopo averle assemblate col mastice le legava con dei punti metallici.

Infine, ogni tanto passava il venditore di stoffe e corredi per le ragazze da marito: fin da bambine si pensava a dotarle di biancheria da casa e da letto, che le ragazze ricamavano sedute sulla porta di casa. Gli uomini mettevano la casa e in qualche paese c’era l’uso di far sfilare le amiche della sposa col corredo.

Nel quotidiano, gli uomini erano vestiti di fustagno, i vecchi di orbace e portavano scarponi chiodati, le donne anziane il costume giornaliero, le più povere andavano scalze; le più giovani erano vestite “alla civile”con un cambio di scarpe e gli abiti belli per la domenica; tutti i bambini giocavano scalzi nelle strade.Una volta, un camion ha portato scarpe tutte uguali ma di misura diversa, con due occhielli e una fibbia , modello unico per tutti.

Ricordo che io arrivavo al paese come “cittadina” con le scarpe, ma alla fine dell’estate anche io correvo scalza sull’acciottolato che ricopriva tutti i vicoli che si dipartivano dallo “stradone”, cioè il tratto di  strada asfaltata che tagliava in due il paese, dove la domenica dopo la Messa si svolgeva la passeggiata e i giovani intrecciavano gli sguardi e nascevano le storie d’amore.