Volare si Può, Sognare si Deve!

Autore archivio: assoparkss

Resoconto e informativa del Presidente Franco Simula

Resoconto e informativa di Franco Simula

Resoconto e informativa del Presidente

Cari amici, è ormai dal 28 luglio che non ci ritroviamo insieme fisicamente, e questo ci manca molto; ci sono stati incontri per videoconferenza, che però non hanno incluso la totalità dei nostri iscritti; alcuni sono venuti a conoscenza solo in parte di ciò che si stava organizzando, ma ci sembra giusto e doveroso informare tutti delle iniziative avviate e che in questo periodo abbiamo continuato a seguire come continueremo in futuro.

I problemi che aspettano una soluzione sono:

1) Reperimento di uno spazio ampio dove poter svolgere tutte le nostre attività;

2) Avvio in collaborazione con il dott. Kai Paulus, della proposta di P.D.T.A, cioè del Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale dedicato ai pazienti Parkinson sulla base delle linee guida nazionali del piano per le cronicità;

3) L’utilizzo del P.D.T.A. all’interno della realizzazione di un Centro Parkinson multifunzionale in grado di affrontare complessivamente le varie esigenze dei pazienti, (neurologo, fisiatra, nutrizionista, logopedista, psicologo, cardiologo, urologo, diabetologo, esperto amministrativo, figura di sostegno ai familiari) di facile consultazione a seconda del bisogno, e con particolare attenzione ai disagi e ai bisogni dell’attuale pandemia del covid-19.

Questi tre punti sono stati affrontati contattando e coinvolgendo via via diverse persone, a cominciare dal prof. Carlo Doria, senatore neoeletto. Ai primi di ottobre un nostro iscritto che ha con lui rapporti parentali ci ha procurato un contatto col senatore che ci ha convocato per conoscere le nostre problematiche ed esigenze. E’ stato gentilissimo e disponibile e a sua volta ci ha messo in contatto col dott. Flavio Sensi, direttore dell’Area territoriale dell’ATS di Sassari, che a sua volta ci ha convocati il 21 ottobre e ha immediatamente verificato se era possibile individuare un locale da adibire a sede dell’Associazione, ipotizzando che potesse essere San Camillo, salvo nostro gradimento. e la verifica della disponibilità.

Oltre ai locali, gli è stata inoltrata una ipotesi di P.D.T.A concordata col dott. Paulus in vista della possibile creazione di un Centro Parkinson Territoriale, come già ci aveva promesso a dicembre 2019 il dott. Nicolò Licheri, direttore dell’ATS territoriale, al quale è stata inoltrata la stessa richiesta.

Il dott. Sensi ha accolto le nostre proposte con entusiasmo, ipotizzando addirittura un Centro Park internazionale.

Prima di questo incontro, il 15 ottobre Tonino Marogna, Ermelinda Delogu ed io siamo stati ricevuti a Corte Santa Maria da una funzionaria del Comune di Sassari, sempre per verificare la possibilità di utilizzo di qualche locale del patrimonio comunale da adibire a nostra sede. La risposta è stata negativa su tutti i fronti, perché manca un regolamento aggiornato e nessuno si piglia la responsabilità di assegnare locali non adeguati alla normativa vigente.

A questo punto, ci è stata fatta un’altra proposta: la Fondazione Lorenzo Paolo Medas, che mette in atto tutta una serie di attività a favore dei disabili, ci ha proposto di condividere un locale di Predda Niedda situato sotto il Bandiera Gialla, sempre per interessamento di Ermelinda Delogu.

Con Dora Corveddu e Tonino Marogna abbiamo visto un locale bello, grande e adeguato alle nostre esigenze e valuteremo che cosa verrà fuori da tutte queste iniziative.

Per ora, purtroppo, è tutto bloccato per il Covid.

L’unico modo per vederci è attraverso i social.

A proposito, il 26 novembre (ore 17,00), sempre per videoconferenza, dovremo formalizzare la cerimonia di Convenzione fra il Rettore dell’Università di Sassari e il Presidente dell’Associazione Parkinson Sassari, già firmata qualche mese fa. Tale Convenzione prevede la formazione di una rete di iniziative congiunte per progetti di ricerca e formazione. Su questa base, sono state già discusse due tesi di laurea sull’alimentazione ed una sui dolori nei malati di Parkinson ed effettuate diverse videoconferenze.

Avremmo dovuto fare una cerimonia solenne nell’Aula Magna dell’Università insieme al Rettore e ai nostri iscritti, ma purtroppo la pandemia ce lo impedisce.

Questo è quanto abbiamo fatto in questi ultimi mesi, se ho dimenticato qualcosa ci aggiorneremo.

Grazie per la pazienza, vi saluto con affetto sperando che questa stagione così buia e triste si concluda al più presto.

Franco Simula


Tempo di castagne – testo di Egle Farris

Tempo di castagne - testo di Egle farris

Venivano al mio paese quando cominciavano i primi freddi. Un mulo macilento e affamato che implorava una sosta, e un carretto, che una volta doveva essere stato dipinto di giallo, pieno di sacchi di castagne. Lui, lunga barba, piccolo e secco con pantaloni rattoppati con decine di ritagli di stoffe diverse, che probabilmente ed inizialmente dovevano essere stati di fustagno, lei con un vecchissimo costume dalla caratteristica cuffietta, forse di Desulo, ancora più secca di lui. Andavano di paese in paese , vendendo quelle castagne raccolte con fatica ,mangiando poco e dormendo meno, perché le tettoie e le stalle dove si accampavano la notte dovevano essere gelide e respingenti . Oltre che vendere castagne, riparavano ombrelli e, piatti rotti , smerciavano umili oggetti di legno, mestoli, colini. Lui aveva un sacco con fili di ferro, ritagli di stoffe, aghi, ombrelli vecchissimi da cui ricuperare pezzi di ricambio. Testardo, rattoppava. cambiava stecche ossidate, manici mutilati o amputati del tutto in ombrelli neri o verdi, quelli enormi allora usati dai contadini. E ai poveracci che gli davano lavoro riparava anche piatti, zuppiere, vassoi di terracotta. Univa i vari cocci, dopo aver fatto due buchetti col ” girabacchino “, con un mastice bianchiccio e una graffa che presto sarebbe arrugginita, rendendo quelle stoviglie ancora più brutte e deturpate.
E tutti si affollavano attorno, poveri da una parte, miseri dall’altra e seguivano gesti lenti, precisi e caparbi, fatti con serietà ed impegno che avrebbero reso quegli umili utensili ancora utilizzabili, perché allora nulla veniva buttato, tutto riciclato sino ad una fine non più rimandabile.  Vita grama che si esauriva in ogni paese dove si fermavano dopo qualche giorno dall’arrivo, con un lavoro misero, spesso pagato solo con fieno per il mulo e una notte in una stalla o pane e formaggio che non rifiutavano mai e che veniva segnato da innumerevoli segni di croce. E se ne andavano, sfiniti e poveri come erano arrivati, umile vita itinerante per vie lontane e sparivano sino all’anno successivo, sparivano oltre quella curva della vecchia fontana, giù giù……. alla fine del paese……….

Una signora col rossetto                         Egle Farris


 

Ricordi – Testi di Giannella Cossi


Cara Egle, mi sono sempre piaciute le storie d’amore, e i tuoi ricordi sono permeati di una dolcezza talmente struggente che destano in me una tempesta di emozioni perché mi riportano tutte insieme le stagioni della mia vita. Forse dovrei dire della “ nostra” vita, credo che molti dei nostri amici più o meno coetanei abbiano vissuto gli anni del dopoguerra, qualcuno anche gli ultimi del periodo bellico.

Sapessi che piacere ho provato nel leggere le testimonianze della vecchia Sassari fatte da Tore Faedda, come nel racconto dei blocchi di ghiaccio scaricati dai ragazzini a Porta Macello e inviati ai negozi o alle case dei fortunati che avevano il mobiletto per tenere il ghiaccio, le descrizioni di una vita semplice ma dignitosa di un’infanzia trascorsa nel cuore del centro storico di Sassari. Anche Tonino Marogna è una fonte inesauribile di quella stagione, in un quartiere diverso di Sassari, l’ho sentito raccontare a voce le sue memorie che abbracciano diverse età della sua vita, dall’immediato dopoguerra allo sviluppo della Petrolchimica  e oltre.

I miei ricordi sono divisi a metà: da una parte la vita nel paese del mio cuore, Nulvi, dove sono nata nel ‘45, dall’altra il centro di Sassari, nella via del vecchio Ospedale di Piazza Fiume nel rione di San Giuseppe, dove i miei genitori si sono trasferiti dal paese quando io avevo tre anni e mio fratello Carlo era appena nato.

Per mia fortuna, tutte le estati della mia infanzia le trascorrevo in paese dai nonni, che si caricavano a turno di quattro nipoti, due per volta, aiutati dall’ultima sorella di mia madre, che faceva la sarta ed era rimasta “zitella”.

Ho conosciuto di persona quella che nei libri di storia viene definita “economia curtense”, cioè un’economia chiusa dove si dispone solo di ciò

che è autoctono, che si produce in loco.

Il cibo era semplice: pane e pasta fatti in casa, perchè tutti avevano la provvista di grano che all’occorrenza andavano a macinare al mulino,  dolci alle feste, latte e formaggi oggetto di baratto, frutta, verdura e ortaggi di stagione, legumi essiccati; a ciò si aggiungevano una gallina o qualche pulcinotto, che di giorno razzolavano nei vicoli e di notte si ritiravano in una stia a forma di una rozza scala all’ingresso delle case più povere  o nelle stalle dove si allevava il maiale con gli avanzi della famiglia.

L’uccisione del maiale era un momento di grande socializzazione perché amici e vicini partecipavano alla lavorazione e conservazione delle varie parti dell’animale, come il lardo sotto sale, la carne essiccata e le salsicce, mentre le parti molli e il sanguinaccio si consumavano in un gioioso banchetto.

Nel paese c’era una sola macelleria, e quando macellavano un bue o una mucca il banditore ne dava l’annuncio con la sua tromba per le strade.

C’era un solo spaccio dove si trovava un po’ di tutto, compreso lo zucchero e il caffè in grani da macinare; ogni tanto passava un uomo su un asino che gridava: “aiò assu sale e sa salippa” che ci portava il sale, e anche uno che vendeva “ bisaru, giarrette, saldina” . Ricordo un uomo che riparava le anfore, i vasi di coccio e le giare: praticava dei fori fra le due parti da congiungere e dopo averle assemblate col mastice le legava con dei punti metallici.

Infine, ogni tanto passava il venditore di stoffe e corredi per le ragazze da marito: fin da bambine si pensava a dotarle di biancheria da casa e da letto, che le ragazze ricamavano sedute sulla porta di casa. Gli uomini mettevano la casa e in qualche paese c’era l’uso di far sfilare le amiche della sposa col corredo.

Nel quotidiano, gli uomini erano vestiti di fustagno, i vecchi di orbace e portavano scarponi chiodati, le donne anziane il costume giornaliero, le più povere andavano scalze; le più giovani erano vestite “alla civile”con un cambio di scarpe e gli abiti belli per la domenica; tutti i bambini giocavano scalzi nelle strade.Una volta, un camion ha portato scarpe tutte uguali ma di misura diversa, con due occhielli e una fibbia , modello unico per tutti.

Ricordo che io arrivavo al paese come “cittadina” con le scarpe, ma alla fine dell’estate anche io correvo scalza sull’acciottolato che ricopriva tutti i vicoli che si dipartivano dallo “stradone”, cioè il tratto di  strada asfaltata che tagliava in due il paese, dove la domenica dopo la Messa si svolgeva la passeggiata e i giovani intrecciavano gli sguardi e nascevano le storie d’amore.                                            

Ognisanti – Testo di Egle Farris


Halloween non si festeggiava . Semplicemente, non esisteva. Chi, come me, ha oltrepassato le settanta primavere, aspettava Ognissanti che dovevano esserci proprio tutti, tutti, i santi, se c’erano due esse, e magari avrà dei ricordi simili ai miei . Ho ancora negli occhi e nella mente quell’attesa, l’attesa di quei dolci che, allora, non venivano preparati in tutti i periodi dell’anno ma solo ed esclusivamente per quella festa.
Cospiratori.

Come carbonari intriganti e cospiratori della notte ,con tutti i cugini, con indifferenza e dissimulata paura cominciavamo a salire quei gradini sbeccati che portavano nelle immense soffitte dei miei nonni (forse è solo il mio ricordo, immense, ma tant’è). La grossa chiave strideva nella serratura e, ssshhhh ssssssshhhhh, entravamo tutti. Toglievamo le scarpe, che non ci sentissero, per carità, ed i piedi diventavano ghiaccioli in un millisecondo.

E si cominciava a passare sotto le travi da cui pendevano ghirlande di pomodori rossi e succosi, grappoli di pere “antoni e ‘sale” dall’inebriante profumo che prometteva delizie , melograne che mostravano denti vermigli e si erano incoronate ed abbigliate da sole, grappoli di uve, torciglioni di bucce d’arancia che formavano colorati ricami e ghirigori profumati. E poi a terra, su uno strato di paglia, mandorle, noci, nocciole e sorbe e, in un cestino, fichi secchi con le foglie di alloro dall’aroma penetrante e prugne viola.

E profumi, profumi dappertutto.  Ma la meta era un uscio chiuso con una chiave appesa lì vicino, (ma perchè chiudevano ,se le chiavi erano lì?) che non portava da nessuna parte conosciuta, ma nella grotta di Alì Babà, proibita per noi, dove le corbule contenevano brillanti trasformati in lucenti “copulette” coi  diavolini d’argento, gli smeraldi erano i papassini coi colorati canditi e le “teriche” con la bianca pasta frastagliata e la nera sapa diventavano opali col castone d’agata. E il tesoro aveva ancora spille di amaretti e gateau di zucchero bruciato con le mandorle che sembravano ambre. E tutti , in profondo silenzio , congelati sino alle ossa ,sceglievamo un dolce, uno solo per non essere scoperti e lo gustavamo lì, al buio e al freddo, godendo del sapore di una chicca, senza sapere invece e senza immaginare che era quello di una vita che tanti, troppi anni dopo, non saremmo riusciti a dimenticare, cristallizzata dentro i confini di un’esistenza sempre troppo breve e di un tempo magico ed irripetibile.
Una signora col rossetto

Egle Farris


Badde Lontana – In ricordo di Giuseppe Fiori – Testi di Franco Simula


In ricordo di Giuseppe Fiori – 04 ottobre 2020

L’incontro con Giuseppe era avvenuto circa un anno fa nell’androne della scuola elementare di Santa Maria dove i parkinsoniani si incontravano regolarmente e dove Giuseppe era approdato perché qualche medico gli aveva rilevato una forma di parkinsonismo. In realtà Giuseppe soffriva di una grave cardiopatia che è stata poi quella che ha spezzato la sua pur forte fibra.
L’incontro è stato di reciproca simpatia a prima vista. Da poco col maestro di canto Fabrizio Sanna avevamo cominciato a cantare “Badde Lontana” e dunque venne spontaneo e naturale sintonizzarci su un argomento comune ad entrambi. -Giusé, cantiamo Badde Lontana? Detto e fatto, Giuseppe aveva immediatamente intonato la canzone mentre io cercavo di accompagnarlo facendo la seconda voce. A questo duo estemporaneo si unirono gradualmente due tre dieci degli amici presenti finché non ci trovammo a cantare tutti insieme, commossi, Badde Lontana.
Giuseppe era anche questo: uno che si faceva entusiasmare dalle piccole cose come la condivisione della sua canzone con un coro di amici parkinsoniani sofferenti come lui.
Ci lasciammo con l’impegno di rivederci una volta la settimana ma Giuseppe non riuscì a mantenere la promessa perché le sue condizioni di salute andarono aggravandosi sempre di più sino al tracollo finale. In un successivo incontro, che poi fu l’ultimo, la moglie di Giuseppe, Mariuccia, sempre attenta a curare i particolari, si era preoccupata di donare all’Associazione due CD: uno, “Anima che sorride” contenente Badde Lontana e altre 15 canzoni degli anni ‘70 interpretate da Giuseppe; l’altro, invece, “Ammenti”, contiene 16 canzoni in dialetto sassarese sempre cantate da Giuseppe.
Grazie, Mariuccia.
Estroverso, buono, generoso sino a rimetterci del suo pur di rendere felice qualcuno. Rimane in noi la tristezza e il rimpianto di non aver potuto godere più a lungo di questa bella amicizia.
Lunedì 5 ottobre, nella chiesa di Santa Maria Bambina, stracolma di amici ed estimatori, è stata celebrata la cerimonia funebre. All’uscita del feretro, si è diffuso nell’aria un insolito suono di campane che, fondendosi con il canto di Badde Lontana intonato inaspettatamente dagli amici, ha creato una magica e suggestiva atmosfera di corale commozione.
Ciao Giuseppe, sarai sempre con noi tutte le volte che il nostro coro canterà Badde Lontana.

UNA VOLTA , L’INVERNO scritto da Egle Farris

Una volta l'inverno - testo di Egle Farris

Si consultavano solo loro.

I calli.

I calli venivano “ascoltati” come noi il meteo dall’immancabile colonnello dell’Aeronautica .  E, i calli, non promettevano niente di buono da diversi giorni.

Oggi, che non capisci più le stagioni, sempre più ripenso che prima le conoscevamo, accecanti estati, miti primavere, autunni che correvano verso inverni che incancrenivano le ossa.

La casa era enorme, un’isolato, tutti assieme vivevano i miei nonni coi vari figli sposati ed ognuno aveva le proprie stanze. Ma in inverno, quando la tempesta, nei pomeriggi innaturalmente  neri, si avvicinava, allora, si correva nella stanza dei nonni, le imposte semichiuse a spiare l’inizio della pioggia.  La fiamma delle candele proiettava ombre su ogni parete e gli armadi parevano mostri pronti ad aprire le mascelle, i letti altissimi e, sotto, nascondigli per bobbotti. E quelle facce tremolanti che ci guardavano …..tutte tutte le pareti erano zeppe di grossi quadri malevoli. Santa Tecla, un piatto sulla mano sinistra contenente i suoi seni tagliati, il cuore di Gesù fuori dal petto stillante spine e goccioloni di sangue e Santa Barbara,  colpita da fulmini e saette, alzava gli occhi al cielo. E si correva a mettere uno stagnale sotto un filo incessante che colava dall’autarchico tetto con le tegole che volavano al minimo soffio di vento, e una casseruola là in fondo e un tegame di qua, ed allora, al culmine, si levava dagli angoli l’invocazione  “Sant’Avara de sos campos, libera nos ” in una litania ripetuta infinite volte  e condita con le promesse di giaculatorie, novene e tredicine  ad ogni santo conosciuto, mentre anche le candele raggiungevano il loro ultimo respiro.

E noi piccoli, pallidi, sbirciavamo all’ esterno,  da un pertugio, tutto quel clamore e quell’acqua ruscellante e, volgendoci, vedevamo tutti quei vecchi, perché agli occhi dei bambini, tutti gli altri, vecchi sono, imploranti S.Avara ,mentre i tavolati cigolavano di suoni aggriccianti . E quando la furia si esauriva ,vedevi il colore tornare sulle guance di ciascuno e subito dopo ci si premiava con le frittelle scaldate sulla graticola e con un pane carasau inumidito, zuccherato e arrotolato. Di quegli anni, sotto l’onda dei ricordi, dietro le palpebre chiuse, risento ancora quei tuoni e quegli scrosci, sigillati nella memoria, paurosi e splendidi e irrimediabilmente perduti ed obsoleti .

Chi, infatti, ha più quei temporali, S. Barbara, ma soprattutto i calli e i tavolati scricchiolanti di una volta?

Una signora col rossetto                                                                  Egle Farris


Il tempo dell’uva e delle mele scritto da Egle Farris


Non era  un ultimatum, era un diktat .

Solo la data veniva comunicata, al momento opportuno.

La vendemmia si sapeva che dovevamo  farla. Sempre.                                                                       

Tutta la famiglia, quella enorme famiglia che occupava intero un isolato con una miriade di lunghi corridoi alla fine dei quali ci stava sempre un armadio enorme temuto  dai piccoli perché credevano ci fosse il maligno  bobotti, stanze, stanzini, cucine  e  ripostigli, nonni, undici figli, generi, nuore e zie e prozie e nipoti e cugini richiamati da ogni dove,  che si passavano la data tipo KGB. Dovunque si trovassero …….. ubbidivano.

Si   scendeva verso quella vigna immensa dal  buffo nome “Tilipische”, con la terra dentro le scarpe, saltando l’asmatico torrente, sulle cui rive gialli meloni e rosse angurie promettevano delizie.   Facevamo a gara per passare da un  paracarro di cemento all’altro  e non cadere, cosa che invece si verificava molto spesso e allora c’era chi piangeva e chi ne rideva per dimostrarsi forte e chi ci minacciava che “la mamma del sole”  nascosta in un banco di candido tufo ci avrebbe rapito e punito per quel pericoloso gioco .

E poi si iniziava, tutti noi bambini ad urlare più che cantare, gli altri a lavorare.                                                                                                                                     

Raccolta veloce e sorridente, famiglie e vignaioli, grandi e piccini, in lotta con le vespe, chiamate dall’ambrato moscato .  Canti a squarciagola, grappoli di infinita dolcezza, acini gonfi e maturi, piluccati prima e dopo, pendenti dai tralci deformati dal vento, file di ceste colme,  esalanti odori aspri e soavi.                                                                                                                                          

Il pranzo, si sapeva. Gli adulti sotto le annose querce, i piccoli tutti assieme sotto un albicocco deliziososo, un melo miali dai frutti bianchi e rossi  e due vecchi susini da cui pendevano cerosi frutti viola all ‘esterno e color dell’oro all’interno.

Il pranzo, manco dirlo, imbandiva uve con formaggi di ogni tipo, salsicce e frittate, deliziose mele “miali “, fragranti pere “antoni ‘e sale “,  io ricordo questo nome, chissà, ma continuo a sentirne ancora il gusto.  

Pranzo velocissimo, la pigiatrice non poteva aspettare, il sole  invece ci attendeva  ancora e si ricominciava  da capo  sino a che iniziava a scemare.                            

E, alla fine del giorno, inebriato di odori  e sensazioni, ti fermavi  con gli  occhi chiusi per assaporare gli ultimi profumi e  per ringraziare loro, le viti spogliate del loro immenso tesoro, ma ancora innamorate dell’ultimo raggio del sole.

Una signora col rossetto                                                   Egle Farris


Il trenino – Testo di Egle Farris

Parlando con Franco ho scoperto che amiamo i treni . Ma questo di cui vi parlo è un treno diverso, bizzarro e misterioso.
IL TRENINO.

Ero stata avvertita .
QUELLO era un treno particolare .


Giunsi trafelata davanti a quel binario che mi avevano indicato.
La prima volta che lo vidi, di un legno che un tempo doveva essere stato rosso, aspettava silenzioso e discosto. Con sgomento guardai se avessi la crinolina ,se fosse il 1874. Il trenino sembrava arrivato dritto dritto dal Far-West, ma era il 1974 e fu con apprensione e curiosità che salii tre gradini altissimi per me, per poggiarmi poi su sedili di rigido legno, rigati da infinite mani, e toccai vetri freddi ed opachi, che facevano solo indovinare l’esterno. Cominciò a saltellare sui binari con affanno e mi sembrò all’improvviso che il tempo e le distanze non contassero più ,dondolata dal ritmo lento e sempre uguale, che invitava a chiudere gli occhi.
Prima fermata, Funtana Niedda, dove non saliva o scendeva nessuno, poi Rodda Quadda, ritratto della prima e poi, poi….. il ponte sospeso ed inquietante che avrei da quel giorno chiamato “Cassandra crossing” sul quale il trenino pencolava e le nocche strette alle spalliere diventavano bianche.

Rodda Quadda

E capitava allora una cosa strana.
Restavi tu sola e il trenino che portava i tuoi pensieri e i tuoi desideri dove tu volevi e sognavi allora ignote destinazioni e lui le indovinava e te le proiettava nell’anima, perché era un vecchio treno e i vecchi treni, si sa, conoscono i sogni di tutti i passeggeri.
Per tanto tempo il trenino non mi portò al lavoro, ma in luoghi immaginari che solo più tardi avrei visto per davvero ,come se lui mi avesse fatto una irrinunciabile ed inviolabile promessa….
E poi, un freddo giorno di dicembre, arrivando di corsa all’appuntamento, sognando altre mete esotiche e lontane, lo cercai con gli occhi e…. non lo trovai più, non lo vidi più, sostituito da una inaspettata, amorfa e grigia littorina senz’anima e senza avventure. Non l’ho mai perdonato ….. Se n’era andato senza avvertirmi, il trenino, così, lasciandomi sola con i luoghi dei miei sogni.

Una signora col rossetto                          Egle Farris

La muraglia e dintorni – testo di Franco Simula

La muraglia e dintorni - di Franco Simula

Alghero luglio 2020
Fra gli algheresi DOC o fra gli innamorati delle bellezze di Alghero chi non dovesse riconoscere o ricordare due punti caratteristici della città sardo-catalana e cioè la “muraglia” e il “solaio”, rivelerebbe una carenza imperdonabile. Per amare la “muraglia” bisogna esserci vissuti, nella “muraglia”. O quanto meno bisogna aver partecipato, da ragazzi, a una delle tante battagliole ingaggiate fra bande rivali dei diversi quartieri della città: un gruppo per difendere il territorio, l’altro per cercare di occuparlo. La “muraglia” serve a connotare quel tratto di cinta murarie fortificato, bellissimo, rivolto verso il sole che tramonta, istituzionalmente noto come lungomare Marco Polo e si snoda dalla torre ottagonale di S. Giacomo sino alla torretta della Polverera. In uno slargo situato verso la metà si notano delle piccole nicchie cha altro non erano che bocche di fuoco da utilizzare nel caso di attacchi proditori dal mare. Questa era la fortezza difensiva di ieri, questa è la muraglia di oggi. Che se non possiede più i blasoni di un tempo rimane pur sempre un punto di incontro non solo per la città da quando è diventato un lungo ristorante che si snoda da La Lepanto al Caffè Latino a ospitare clienti desiderosi di cenare evitando di far disperdere gli ultimi raggi di sole morente. Da quando è stata abbellita col totale rlfacimento del fondo stradale, fatto con lastroni e ciottoli , secondo il tipico disegno delle strade algheresi, la “muraglia” si è trasformata da punto negletto e sporco di periferia in passeggiata elegante e irrinunciabile sia per gli algheresi che per i turisti del mondo.
Questo tratto di passeggiata, delimitato all’orizzonte dal gigante addormentato di Capo Caccia è uno di quegli spettacoli mozzafiato che al tramonto si accende di un rosso porpora intenso da ipnotizzare le centinaia di fotografi occasionali desiderosi di carpire l’ultimo spicchio di sole calante.


Dopo il tramonto, animano la contrada quelli di Carrerò dels Hebreus, di via S. Erasmo, di via Sannino, via Ospedale, di Piazza Santa Croce che dopo aver cenato fugacemente, si presentano con la chitarra. Pietro, creativo geniale ma indocile e insofferente delle imposizioni; Luis, cantante poliglotta, comprese le innumerevoli varietà del canto sardo nonché apprezzabile guida turistica, Armando, estroso accompagnatore di musiche algheresi; Barabba, con chitarre e armonica, viola, arpa e chi più ne ha più ne ha più ne metta: “musico” per definizione propria; Tore con le sue nacchere, fa da “spalla” a tutti, solo quando è assente ci si rende conto che manca uno strumento essenziale; Paolo con la batteria, completa il complesso musicale. Non si direbbe ma quasi tutti son pronti a far da “primedonne” e quindi poco adusi ad arrivare per primi. Intanto “dopocena”, i primi arrivati trovano posto fra le poche panchine dello slargo, dove troneggia la copia perfetta di un cannone in bronzo del XVI secolo, che stavolta non è li a cacciare gli stranieri, ma a riceverli con disponibilità e garbo. I bambini occupano la base di legno del cannone e cominciano a manovrarlo, sognando la resa dei pirati che hanno osato attaccare le fortificazioni algheresi. Ormai il gruppo dei suonatori non può più tardare: infatti sbucano alla spicciolata, dai vicoli adiacenti, qualcuno facendosi precedere da un ragazzino che regge lo strumento. Le donne che sinora erano rimaste a casa, vanno a occupare le panchine: Samanta con Salvo e Andrea, Annamaria con Sandro, Mariangela con Tonio, Rita con Gianni Una volta che i suonatori trovano la loro collocazione ideale, accordate le chitarre e consumati gli ultimi “sfottò”, di botto si scatena la buriana musicale.
Ciò che sino a questo momento era apparso disordine individualista, si ricompone in un caos ordinato, generato da tre chitarre, una batteria, una nacchera; mancano solo gli strumenti musicali (tanti) di Barabba, che col suo carisma, mette tutti d’accordo. Improvvisamente si formano dei capannelli di turisti italiani e stranieri, che dopo una prima esecuzione provano piacere a intrattenersi prima e scatenandosi poi in vorticosi balli di musiche spagnole.
Questo è quanto accade nello spiazzo dei cannoni, che rappresenta il “piano nobile” del complesso della “Muraglia”. E qui avvengono gli eventi di rappresentanza: suoni, canti, balli; ma la casa-Muraglia non finisce qui, nel piano sottostante esiste una “tavernetta”, meglio nota come “Il Solaio”, dove si consumano (nel senso di mangiare) i delitti più efferati: dall’orata all’agnello, dal calamaro al porcetto, passando per formaggi e salsicce, verdure e dolci di ogni fantasia. Qui il re indiscusso della cucina è Sandro Multineddu, che si fa aiutare anche da altri, ma l’ultima parola, sui condimenti, sulle spezie, sui vini da scegliere, rimane sempre la sua.
Mancano Gino e Grazia, come mai? No, no, sono presenti eccome! Dando una mano, se occorre nelle circostanze più svariate.
Tornando al solaio-tavernetta, c’è da aggiungere che è il punto-mare più vicino alla zona, dove gli affezionati vanno a fare il bagno e a prendere il sole: il “Solaio”, appunto. Ma quando il solaio abbandona la veste istituzionale e diventa cucina, allora è un brulicare di persone indaffarate ad accendere il fuoco, e a preparare le carni e i condimenti: e qui il re, coordinatore della cucina, continua ad essere sempre Sandro Multineddu.
E quando, finalmente, arriva l’ora del pranzo, il popolo della Muraglia si placa e dà sfogo alle Olimpiadi mangerecce. Com’è immaginabile, le quantità sono pantagrueliche e quindi bastevoli anche per la cena. Dopo qualche minuto di silenzio obbligato iniziano a farsi sentire gli effetti euforici di qualche bicchiere di gradevole vino tracannato in eccedenza. Finora non era stata notata l’assenza di Carmelo e Pina, che hanno in mente di realizzare progetti familiari con l’entusiasmo e l’intraprendenza dei giovani: è immediata l’evocazione della poesia di Prevert: “I ragazzi che si amano”. L’unica assente nel solaio-tavernetta è Angela, la “reina”. Qualche problema di salute le impedisce di condividere con gli altri momenti comunitari di allegria, e agli altri mancheranno le canzoni degli anni ‘60 e ‘70 “fischiettate” con insolita bravura da Angela, la “reina” della Muraglia.

Franco Simula