Volare si Può, Sognare si Deve!

La muraglia e dintorni – testo di Franco Simula

La muraglia e dintorni - di Franco Simula

Alghero luglio 2020
Fra gli algheresi DOC o fra gli innamorati delle bellezze di Alghero chi non dovesse riconoscere o ricordare due punti caratteristici della città sardo-catalana e cioè la “muraglia” e il “solaio”, rivelerebbe una carenza imperdonabile. Per amare la “muraglia” bisogna esserci vissuti, nella “muraglia”. O quanto meno bisogna aver partecipato, da ragazzi, a una delle tante battagliole ingaggiate fra bande rivali dei diversi quartieri della città: un gruppo per difendere il territorio, l’altro per cercare di occuparlo. La “muraglia” serve a connotare quel tratto di cinta murarie fortificato, bellissimo, rivolto verso il sole che tramonta, istituzionalmente noto come lungomare Marco Polo e si snoda dalla torre ottagonale di S. Giacomo sino alla torretta della Polverera. In uno slargo situato verso la metà si notano delle piccole nicchie cha altro non erano che bocche di fuoco da utilizzare nel caso di attacchi proditori dal mare. Questa era la fortezza difensiva di ieri, questa è la muraglia di oggi. Che se non possiede più i blasoni di un tempo rimane pur sempre un punto di incontro non solo per la città da quando è diventato un lungo ristorante che si snoda da La Lepanto al Caffè Latino a ospitare clienti desiderosi di cenare evitando di far disperdere gli ultimi raggi di sole morente. Da quando è stata abbellita col totale rlfacimento del fondo stradale, fatto con lastroni e ciottoli , secondo il tipico disegno delle strade algheresi, la “muraglia” si è trasformata da punto negletto e sporco di periferia in passeggiata elegante e irrinunciabile sia per gli algheresi che per i turisti del mondo.
Questo tratto di passeggiata, delimitato all’orizzonte dal gigante addormentato di Capo Caccia è uno di quegli spettacoli mozzafiato che al tramonto si accende di un rosso porpora intenso da ipnotizzare le centinaia di fotografi occasionali desiderosi di carpire l’ultimo spicchio di sole calante.


Dopo il tramonto, animano la contrada quelli di Carrerò dels Hebreus, di via S. Erasmo, di via Sannino, via Ospedale, di Piazza Santa Croce che dopo aver cenato fugacemente, si presentano con la chitarra. Pietro, creativo geniale ma indocile e insofferente delle imposizioni; Luis, cantante poliglotta, comprese le innumerevoli varietà del canto sardo nonché apprezzabile guida turistica, Armando, estroso accompagnatore di musiche algheresi; Barabba, con chitarre e armonica, viola, arpa e chi più ne ha più ne ha più ne metta: “musico” per definizione propria; Tore con le sue nacchere, fa da “spalla” a tutti, solo quando è assente ci si rende conto che manca uno strumento essenziale; Paolo con la batteria, completa il complesso musicale. Non si direbbe ma quasi tutti son pronti a far da “primedonne” e quindi poco adusi ad arrivare per primi. Intanto “dopocena”, i primi arrivati trovano posto fra le poche panchine dello slargo, dove troneggia la copia perfetta di un cannone in bronzo del XVI secolo, che stavolta non è li a cacciare gli stranieri, ma a riceverli con disponibilità e garbo. I bambini occupano la base di legno del cannone e cominciano a manovrarlo, sognando la resa dei pirati che hanno osato attaccare le fortificazioni algheresi. Ormai il gruppo dei suonatori non può più tardare: infatti sbucano alla spicciolata, dai vicoli adiacenti, qualcuno facendosi precedere da un ragazzino che regge lo strumento. Le donne che sinora erano rimaste a casa, vanno a occupare le panchine: Samanta con Salvo e Andrea, Annamaria con Sandro, Mariangela con Tonio, Rita con Gianni Una volta che i suonatori trovano la loro collocazione ideale, accordate le chitarre e consumati gli ultimi “sfottò”, di botto si scatena la buriana musicale.
Ciò che sino a questo momento era apparso disordine individualista, si ricompone in un caos ordinato, generato da tre chitarre, una batteria, una nacchera; mancano solo gli strumenti musicali (tanti) di Barabba, che col suo carisma, mette tutti d’accordo. Improvvisamente si formano dei capannelli di turisti italiani e stranieri, che dopo una prima esecuzione provano piacere a intrattenersi prima e scatenandosi poi in vorticosi balli di musiche spagnole.
Questo è quanto accade nello spiazzo dei cannoni, che rappresenta il “piano nobile” del complesso della “Muraglia”. E qui avvengono gli eventi di rappresentanza: suoni, canti, balli; ma la casa-Muraglia non finisce qui, nel piano sottostante esiste una “tavernetta”, meglio nota come “Il Solaio”, dove si consumano (nel senso di mangiare) i delitti più efferati: dall’orata all’agnello, dal calamaro al porcetto, passando per formaggi e salsicce, verdure e dolci di ogni fantasia. Qui il re indiscusso della cucina è Sandro Multineddu, che si fa aiutare anche da altri, ma l’ultima parola, sui condimenti, sulle spezie, sui vini da scegliere, rimane sempre la sua.
Mancano Gino e Grazia, come mai? No, no, sono presenti eccome! Dando una mano, se occorre nelle circostanze più svariate.
Tornando al solaio-tavernetta, c’è da aggiungere che è il punto-mare più vicino alla zona, dove gli affezionati vanno a fare il bagno e a prendere il sole: il “Solaio”, appunto. Ma quando il solaio abbandona la veste istituzionale e diventa cucina, allora è un brulicare di persone indaffarate ad accendere il fuoco, e a preparare le carni e i condimenti: e qui il re, coordinatore della cucina, continua ad essere sempre Sandro Multineddu.
E quando, finalmente, arriva l’ora del pranzo, il popolo della Muraglia si placa e dà sfogo alle Olimpiadi mangerecce. Com’è immaginabile, le quantità sono pantagrueliche e quindi bastevoli anche per la cena. Dopo qualche minuto di silenzio obbligato iniziano a farsi sentire gli effetti euforici di qualche bicchiere di gradevole vino tracannato in eccedenza. Finora non era stata notata l’assenza di Carmelo e Pina, che hanno in mente di realizzare progetti familiari con l’entusiasmo e l’intraprendenza dei giovani: è immediata l’evocazione della poesia di Prevert: “I ragazzi che si amano”. L’unica assente nel solaio-tavernetta è Angela, la “reina”. Qualche problema di salute le impedisce di condividere con gli altri momenti comunitari di allegria, e agli altri mancheranno le canzoni degli anni ‘60 e ‘70 “fischiettate” con insolita bravura da Angela, la “reina” della Muraglia.

Franco Simula

Nuove attività ginniche

Nuove attività ginniche, di ballo e di merenda al Parco “Maria Carta” 10 luglio 2020

No Images found.

Fisioterapia al Parco “Maria Carta” 07 luglio 2020

Seduta di fisioterapia al Parco “Maria Carta” 07 luglio 2020

No Images found.

Lezione di canto al Parco “Maria Carta”

Lezione di canto al Parco “Maria Carta” 06 luglio 2020

Platamona – Testo di Egle Farris

Platamona - testo di Egle Farris

Platamona , Lido Iride, la spiaggia davanti alla terrazza

Era l’odore del fritto quello che ti svegliava, alle sette del mattino!  Entravi stropicciato in cucina e trovavi mamma che friggeva in larghe padelle melanzane e patate a fette così grosse  che mai sarebbero state croccanti. Perché, a Platamona, si andava col pranzo, la merenda e spesso anche la cena. D’altronde bisognava ammortizzare la spesa del viaggio.

Secondo i giorni il signor Mario o Tore, storici abusivi con una seicento multipla, focomelica senza muso, venivano  a prenderci sotto casa e lì ci riportavano a fine giornata, con l’addizionale di lire 40 sul prezzo di 60. Cento lire e Platamona era tua.

Borsa  frigo  d’ordinanza, la cabina, appannaggio dei più benestanti  che attaccavano ai bordi dell’ombrellone un telo e che fungeva da spogliatoio, sacca di giochi, teli mare  (asciugamani ?), zero costume di ricambio. Solo uno ne avevi, femmine quello ricavato da un taglio di cinz avanzato dal copriletto e cucito da mamma, maschi quello di spessa lana (non si sa mai ….) che appesantito dall’acqua, scivolava miserevolmente, ma inesorabilmente sino alle ginocchia, lasciando sempre senza risposta  la nostra domanda ” ma perché i maschi si mettono tutta quella sabbia dentro il costume?”.

Facevi il bagno tipo foca, io perlomeno, agitando braccia e gambe dove di acqua ce ne stava 10 cm e lo sguardo indagatore di tua madre non ti faceva andare oltre. Un sole da far cadere i passeri e tutti a pranzo verso l’una, poiché l’undicesimo comandamento  delle tre ore post-prandiali dal successivo bagno, io credo che la mia generazione  non lo abbia mai e poi mai infranto. Polpette, verdure fritte, uva e pere, alternativa alla torta di zucchine e agli affettati. E quelle tre lunghe, infinite ore ci vedevano chiedere inutilmente e di continuo “posso fare il bagno?” e la risposta era sempre  “ancora un’ora “.

Le cabine e l’arena del Lido Iride

Povere vacanze di un tempo dimenticato, oggi ci ridono appresso i polli, ci ritenevamo fortunati quando frequentavamo il lido Iride. C’era la cabina, non più grande di quelle telefoniche venute dopo, ma era una casa sul mare e tanto ci bastava. Adesso che possiamo avere tutto e sorridiamo di quell’ingenuità, ci mancano le cose più preziose. Quell’acqua trasparente senza palline petrol-chimiche ed alghe a quintalate, quel lunghissimo litorale che arrivava a Sorso senza deturpante cemento, con pinete pulite ed intonse, quel bagnasciuga nel quale solo le nostre orme restavano e quel secchiello di latta coi bordi appena arrugginiti  che accoglieva gli “occhi di S.Lucia ” e le conchiglie dal profumo di sale, ognuna più bella delle altre ………


Prove di teatro al Parco “Maria Carta” 01 luglio 2020

IL CAPITANO

Il Capitano

Circa 25 anni fa ho conosciuto il nostro amico Giuseppe, capitano della famigerata squadra di calcio “Igiene”.

Allora lavoravo alla mia tesi di laurea nel laboratorio di Elettromiografia della Clinica Neurologica di Sassari; il tema del lavoro era “Standardizzazione di una Metodica per la Registrazione dei Potenziali Cognitivi Uditivi e Visivi”, in poche parole, il mio compito consisteva nel tarare un macchinario molto sofisticato per poter misurare la capacità della memoria a breve termine. Negli anni a seguire avrei approfondito tale metodica, con il benestare di Prof. Isidoro Aiello, e l’aiuto della biologa dott.ssa Immacolata Magnano, con lo studio delle funzioni cognitive del lobo frontale e del cervelletto durante la scuola di specializzazione, fino a creare una metodica per la diagnosi pre-clinica della malattia di Parkinson durante il dottorato di neuroscienze.

 

(Il libretto di ricordi di Giuseppe appena pubblicato)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando Giuseppe entrò nella piccola stanza, dove lavoravamo sette giorni su sette per un anno intero al Neuroscan, il computer che permetteva di trasformare l’attività cerebrale in informazione leggibile, era come se lo conoscessi da sempre: con il suo modo di fare, gentile, disponibile, molto affabile e simpatico, Giuseppe, che si era prestato a fare da cavia, mi metteva subito a mio agio e scherzavamo appunto come vecchi amici.

Le nostre “cavie” dovevano sottoporsi ad un elettroencefalogramma (EEG) durante il quale avevano il compito di eseguire dei semplici compiti mnesici dei quali la macchina misurava la precisa localizzazione dell’area cerebrale attivata ed i tempi impiegati. Per la registrazione dell’EEG utilizzavamo un rudimentale casco a 38 canali, che in realtà non era un casco ma un insieme di stringhe di gomma sotto le quali erano applicati gli elettrodi. Forse il lavoro più faticoso e lungo era di ridurre le impedenze tra elettrodo e cuoio capelluto, per cui raschiavamo con un ago smusso la superficie seborroica dello scalpo, il che non era molto piacevole.

Sicuramente tale operazione faceva male, ma per Giuseppe nessun problema, lui ci stava e ci divertivamo un sacco in quel pomeriggio chiusi nella stanzetta buia della Neurologia. Generalmente le registrazioni erano faticose e noiose, ma con Giuseppe era diverso: lui era interessato a ciò che succedeva, parlavamo e ridevamo tanto.

La tesi di laurea alla fine era un successo e poneva le basi per tante presentazioni a convegni nazionali ed internazionali, pubblicazioni su riviste scientifiche, e per le mie tesi di specializzazione e di dottorato. Per me erano anni di duro lavoro, ma soprattutto di tante soddisfazioni, di entusiasmi e di sogni; e così, il chimico industriale Lorenzo Giuseppe Cossu mi ha aiutato a costruirne le basi.

Mille grazie Giuseppe.

(sotto i pini di via Venezia Giuseppe mi omaggia orgogliosamente del suo libretto, ed Anna cerca la penna che le avevamo rubato per la dedica. La bella foto è di Dora, la capitana)

Kai S. Paulus

 

LA CASA APPESA ALLE STELLE. Testo di Egle Farris

La casa appesa alle stelle

“La casa appesa alle stelle”

La piazzetta affacciava su corso Trinità da via delle Muraglie ed il minuscolo

attico buono solo per squattrinati studenti se la godeva tutta, col sole, con le

stelle o con la pioggia, assieme al fabbro e alla contadina che vendeva uova

incartate con giornali vecchi e riciclati spaghi, seduta sempre allo stesso angolo. 

Il primo palpito era l’amore, il secondo i tetti, il terzo l’attesa di salire quei vetusti gradini di antica lavagna.              

Diciotto anni e i mille sogni di una vita da vivere, l’abbraccio in una piccola terrazza,

al vigile  ed occhiuto cospetto delle fatiscenti case tutt’attorno.

Il primo palpito era l’amore, il secondo i tetti, il terzo le stelle nelle notti di  primavera.

Le campane di S. Donato o S.Apollinare ci facevano volare sopra la distesa continua

ed altalenante di tegole rosse e sbrecciate. La casa è ancora lì, immutata e muta testimone.

E il primo palpito è sempre l’amore, il secondo i tetti, il terzo il sogno di tornare una sera di maggio su

quel piccolo terrazzo e, tenuti per mano, non più giovani e sognatori,

stretti in un tenero abbraccio che la vecchiaia non dimentica, aspettare le stelle.


Mr. Parky ed io. Testi di Egle Farris


Mr. Parky ed io.                                                                                                                                   

Non sono una scrittrice, né mi importa di esserlo.

Ho solo infinite  nostalgie, che si tramutano in indimenticabili ricordi. E più passa il tempo  e più mi innamoro di essI, d’altronde sono  gli unici che non mi lasceranno mai sola. Fanno parte di me, li sento scorrere persi in un lontano passato, ombre  che non mi riservano più sorprese, ma solo la certezza di averli veramente vissuti. Gli oggetti, le foto, le lontane visioni mi portano ricordi e nonostante essi siano sbiaditi, posso nasconderli, ma non posso dimenticarli.  Vorrei non perdermi in questo ininterrotto flusso di onde di mare, ma mi ci immergo sino al punto di sentirne i sapori e  le fragranze.

Fanno parte di me e mi saranno utili quando mi sembrerà che il cielo perda  i suoi colori ,solo un poco , ed il vento la voglia di trasportare profumi e sensazionI.  Perché, i ricordi, nessuno  può portarmeli via. Queste piccole storie sono i momenti di una bambina che ha vissuto in anni dipanatisi dal 1945 in poi. Vita ingenua di un tempo, vita anche per me lontana, che ho voluto  raccontare ai miei nipoti, perché sappiano che c’è stato un altro modo di vivere, semplice e modesto, senza auto, iPhone,  pc  e lontani viaggi.

Periodi che scandivano  feste attese, persone amate o soltanto conosciute e vecchi oggetti carissimi, piccole testimonianze di un passato scomparso per sempre.  Non so se, letti adesso, questi piccoli frammenti  daranno  sensazioni ed emozioni, ma li  prego di conservarli e rileggerli fra tanti, tantissimi anni, quando la nostalgia  prenderà, perché li prenderà, siatene   certi.   Tanti momenti  che sembrerebbero slegati fra loro ed invece sono un tutt’uno nei ricordi chiusi della mia memoria, unico filo conduttore.  Talvolta il ricordo era così sbiadito che ho dovuto ricorrere alla fantasia, ma non ho alterato nulla di veramente reale e allora, quando la mia memoria e la mia mente saranno stanche e vuote, qualcuno forse mi leggerà qualche pagina ed io potrò  fantasticare, persa nel tempo che se n’è  andato.

Perchè ho fatto tutto questo?

Mi sono accorta un giorno di circa sei anni fa che non ero più sola. Conoscendone i sintomi, in quanto mia madre ne aveva sofferto per circa quindici anni, ho capito che l’egregio Mr Parky, come l’ho sempre chiamato, voleva far compagnia anche a me.

Come se io avessi bisogno o necessità di compagnia! Sto bene Mr Parky, non si scomodi per favore. E poi tra famigerati attacchi di panico e mille esami estenuanti, lei si è accodato silente, perché il tumore ha voluto avere la precedenza. E’ stato più veloce di lei ed ho combattuto in un estate cocente, riportando una vittoria che non credevo possibile.

Vittoria che non ho colta da sola, perché i miei nipoti con baci, carezze, viaggi e furtive scorpacciate di cioccolato con le mandorle, nascosti dietro le tende del salotto, hanno contribuito a colmarmi di attenzioni e sostegno.

E adesso che Mr Parky ha di nuovo deciso di  ricomparire nella mia famiglia, so che non vincerò. Le perderò tutte le battaglie, forse qualcuna no, ma la guerra la vincerà lui,  che ha legato il suo nome a questa orribile malattia.

E allora Mister Parky, mi consolo già da ora ricordando, ricordando tutto della mia vita, ed è per questo che ho scritto tanto, per leggere quando non ricorderò, perché lei, i miei ricordi non me li porterà via. Nessuno potrà mai portarmeli via, li  avrò racchiusi dentro il mio cuore prima che nella mia mente, iniziando da una storia d’amore che dura da cinquantacinque anni …..

Se vi piacciono le storie d’amore, leggete, se non le amate potreste perdervi qualcosa…

Una signora col rossetto .                                                                                    

Egle Farris


(segue)