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Ricordi – Testi di Giannella Cossi


Cara Egle, mi sono sempre piaciute le storie d’amore, e i tuoi ricordi sono permeati di una dolcezza talmente struggente che destano in me una tempesta di emozioni perché mi riportano tutte insieme le stagioni della mia vita. Forse dovrei dire della “ nostra” vita, credo che molti dei nostri amici più o meno coetanei abbiano vissuto gli anni del dopoguerra, qualcuno anche gli ultimi del periodo bellico.

Sapessi che piacere ho provato nel leggere le testimonianze della vecchia Sassari fatte da Tore Faedda, come nel racconto dei blocchi di ghiaccio scaricati dai ragazzini a Porta Macello e inviati ai negozi o alle case dei fortunati che avevano il mobiletto per tenere il ghiaccio, le descrizioni di una vita semplice ma dignitosa di un’infanzia trascorsa nel cuore del centro storico di Sassari. Anche Tonino Marogna è una fonte inesauribile di quella stagione, in un quartiere diverso di Sassari, l’ho sentito raccontare a voce le sue memorie che abbracciano diverse età della sua vita, dall’immediato dopoguerra allo sviluppo della Petrolchimica  e oltre.

I miei ricordi sono divisi a metà: da una parte la vita nel paese del mio cuore, Nulvi, dove sono nata nel ‘45, dall’altra il centro di Sassari, nella via del vecchio Ospedale di Piazza Fiume nel rione di San Giuseppe, dove i miei genitori si sono trasferiti dal paese quando io avevo tre anni e mio fratello Carlo era appena nato.

Per mia fortuna, tutte le estati della mia infanzia le trascorrevo in paese dai nonni, che si caricavano a turno di quattro nipoti, due per volta, aiutati dall’ultima sorella di mia madre, che faceva la sarta ed era rimasta “zitella”.

Ho conosciuto di persona quella che nei libri di storia viene definita “economia curtense”, cioè un’economia chiusa dove si dispone solo di ciò

che è autoctono, che si produce in loco.

Il cibo era semplice: pane e pasta fatti in casa, perchè tutti avevano la provvista di grano che all’occorrenza andavano a macinare al mulino,  dolci alle feste, latte e formaggi oggetto di baratto, frutta, verdura e ortaggi di stagione, legumi essiccati; a ciò si aggiungevano una gallina o qualche pulcinotto, che di giorno razzolavano nei vicoli e di notte si ritiravano in una stia a forma di una rozza scala all’ingresso delle case più povere  o nelle stalle dove si allevava il maiale con gli avanzi della famiglia.

L’uccisione del maiale era un momento di grande socializzazione perché amici e vicini partecipavano alla lavorazione e conservazione delle varie parti dell’animale, come il lardo sotto sale, la carne essiccata e le salsicce, mentre le parti molli e il sanguinaccio si consumavano in un gioioso banchetto.

Nel paese c’era una sola macelleria, e quando macellavano un bue o una mucca il banditore ne dava l’annuncio con la sua tromba per le strade.

C’era un solo spaccio dove si trovava un po’ di tutto, compreso lo zucchero e il caffè in grani da macinare; ogni tanto passava un uomo su un asino che gridava: “aiò assu sale e sa salippa” che ci portava il sale, e anche uno che vendeva “ bisaru, giarrette, saldina” . Ricordo un uomo che riparava le anfore, i vasi di coccio e le giare: praticava dei fori fra le due parti da congiungere e dopo averle assemblate col mastice le legava con dei punti metallici.

Infine, ogni tanto passava il venditore di stoffe e corredi per le ragazze da marito: fin da bambine si pensava a dotarle di biancheria da casa e da letto, che le ragazze ricamavano sedute sulla porta di casa. Gli uomini mettevano la casa e in qualche paese c’era l’uso di far sfilare le amiche della sposa col corredo.

Nel quotidiano, gli uomini erano vestiti di fustagno, i vecchi di orbace e portavano scarponi chiodati, le donne anziane il costume giornaliero, le più povere andavano scalze; le più giovani erano vestite “alla civile”con un cambio di scarpe e gli abiti belli per la domenica; tutti i bambini giocavano scalzi nelle strade.Una volta, un camion ha portato scarpe tutte uguali ma di misura diversa, con due occhielli e una fibbia , modello unico per tutti.

Ricordo che io arrivavo al paese come “cittadina” con le scarpe, ma alla fine dell’estate anche io correvo scalza sull’acciottolato che ricopriva tutti i vicoli che si dipartivano dallo “stradone”, cioè il tratto di  strada asfaltata che tagliava in due il paese, dove la domenica dopo la Messa si svolgeva la passeggiata e i giovani intrecciavano gli sguardi e nascevano le storie d’amore.