Volare si Può, Sognare si Deve!

La festa dei miei vent’anni di Salvatore Faedda


Questa che sto per raccontare è una delle tante sfortunate coincidenze che non dimenticherò mai.
Dovevo festeggiare il mio ventesimo compleanno (un traguardo molto importante per ciascuno di noi) e volevo fare bella figura con i miei amici. Ad uno di questi avevo dato l’incaricato di fare da portavoce con tutti gli altri amici per consentire loro d’ottenere il permesso dai propri genitori. La festa doveva svolgersi nella cantina di un caro amico per poter prolungare la serata oltre un certo orario…..ovviamente non oltre le ore 20,00.
La settimana precedente l’evento io e il mio amico non abbiamo fatto altro che controllare la perfezione dell’organizzazione, senza lasciare nulla al caso. Ormai era tutto pronto…qualche busta di patatine, qualche bicchiere di spuma, due torte preparate da una zia paterna e, infine, musica a volontà.
Giunto il giorno fatidico ecco che i primi problemi si manifestano già di primo mattino; infatti, la cantina che doveva ospitarci e che custodiva un certo numero di botti piene di vino, risultava “ubriaca” a causa delle esalazioni emanate.
Furono chiamati gli esperti che, per ripristinare la nostra sala da ballo, dovettero entrare nella cantina camminando a testa bassa onde evitare di perdere l’equilibrio e scivolare brutalmente a causa dell’umidità della cantina.
Come se non bastasse appena rientrato a casa mia madre mi comunicò che mio nonno materno non stava bene e di tenermi pronto per qualsiasi evenienza. Molto comprensivi mi consigliarono di spostare la festa di una settimana. Mannaggia, pensai tra me, questa proprio non ci voleva!!! Mentre camminavo, deluso e sconsolato, misi il piede destro sul fondo di una bottiglia che mi procurò un taglio abbastanza profondo tanto da richiedere l’intervento del “pronto soccorso”…con dieci punti di sutura.
Il giorno successivo al mio 20.mo compleanno mio nonno ci lasciò, lasciando tanta tristezza nel mio cuore.
Col senno del poi credo che non si possa affrontare tutto questo disagio senza pensare che il diavolo, anche in questa circostanza, ci abbia messo la coda.

Salvatore Faedda

 

ATTONITO di G.B.


ATTONITO

Sul fare della sera mi sorprendo
a pensare al mistero della vita....
crogiolo di ineffabili bellezze e
coacervo di inspiegabili contraddizioni.

Assegnate senza discernimento
a persone impoverite dalle miserie umane,
che vivono in una simbiosi disconosciuta
senza colpe o meriti presunti.

Come strade assolate senza ombre...
simili a aurore luminose del mattino,
o vicoli tortuosi inerpicati su dirupi....
come notti immote orfane di luna.

Questo, nella consapevolezza inconscia
di una verità immutabile nel tempo,
confusa da ognuno, per convenienza,
nella profondità dei sentimenti .

Due condizioni apparentemente paritarie
vissute con la stessa paura dell'ignoto....
unite nella quotidiana dissimulazione
del perpetuo inganno, per non "morire due volte" .

g.b.

 

Il presidente dell’Associazione Parkinson Sassari invia una Lettera di protesta verso la Commissione Medica Patenti Speciali


UNA VISITA MEDICA GROTTESCA

Entrare in un ambulatorio medico dove opera una commissione medica per la revisione o la revoca delle patenti speciali (quelle attribuite ad automobilisti con particolari patologie) e uscirne come investito da una allucinazione improvvisa e violenta che ti cambia di botto la visione serena e normale del mondo è inspiegabilmente irreale.

Dopo tre ore e mezza di attesa trascorsa in una condizione di torpore per la levataccia che devi affrontare se vuoi arrivare entro il numero stabilito per quel giorno, vengo chiamato alle 11,30, col numero 54: un numero, non una persona.

Un signore (poco signore a dire il vero) in maglietta rosso-garibaldino forse un medico, ma senza un segno che lo contraddistingua come tale, tarchiato come un buttafuori da discoteca, mi accoglie sul limitare dell’ingresso, salutandomi in questo modo con tono di voce abbastanza alto (alla faccia della privacy): “Lei è molto rallentato…lei è molto rallentato”. Io, colpito da questa improvvisa aggressione che mi colloca automaticamente nella posizione di accusato in un processo che non mi aspettavo, riesco a malapena a biascicare due parole. “E allora”? In poche parole volevo sapere di che cosa ero improvvisamente accusato.

Il seviziatore, moderando leggermente il tono (forse si è reso conto di aver ecceduto un tantino) ma sempre alquanto autoritario: “Metta lì le sue cose e si sieda. Con una mano tappi un occhio e legga” In effetti la sedia era collocata di fronte a una tabella che si vede negli studi oculistici contenente una varietà di lettere dell’alfabeto sistemate con dimensioni gradualmente decrescenti. Mi sembrava di essere uno scolaretto di prima elementare che sta imparando con fatica a leggere le lettere dall’alfabeto. Terminata la laboriosa lettura (strano: in determinati contesti anche le cose semplici e banali si complicano) il seviziatore mi affida al secondo commissario (forse il presidente) che mi rivolge la domanda delle domande: sibillina, forse da decrittare: “Cosa fa con la macchina”? Oggi è proprio una giornata storta; sembra una congiura contro. Io intanto mi domando cosa faccia con la macchina oltre che guidarla per spostarmi. La mia risposta, forse ingenua, forse allucinata da quello che mi sta capitando intorno, è: “Guido” Il commissario interrogante capisce che non ho capito e allora precisa: “L’adopera per spostarsi in città…” Adesso capisco che la domanda che voleva farmi era a che cosa adoperavo la macchina. “Non l’adopero per lavoro. ma per spostarmi in città per svolgere la miriade di commissioni che la vita di tutti i giorni ti impone”. Sollecitato, preciso che talvolta mi capita di spostarmi in qualcuno dei centri vicini come Alghero, Ittiri, Porto Torres. Lui mi incalza: “Effettua anche viaggi lunghi per esempio, Cagliari”. “Non guido per viaggi lunghi, mi stanco e quindi ho deciso già da un po’ di non mettermi alla guida della macchina per spostamenti troppo lunghi; viaggio con altri alla guida”.

Nessuno scambio con me sulle mie patologie che peraltro sono tutte puntualmente diagnosticate e accompagnate dai relativi certificati degli specialisti che dichiarano in maniera documentata che sono ancora nelle condizioni di guidare una macchina in maniera affidabile.

Il presidente intanto esamina il certificato del diabetologo (che fa parte della commissione) e non ha niente da eccepire (anche perché il giudizio espresso è il risultato delle analisi di laboratorio). Mentre invece mi domanda chi ha firmato il certificato rilasciato dalla Clinica Neurologica. Io dico che è firmato dal Dott. Kai Paulus. Lui, con un ghigno tra l’ironico e il saccente, comunque certamente scorretto: “Il buon Paulus eh, eh “.

Mi fanno accomodare (si fa per dire) fuori dalla stanza e dopo un consulto interno di qualche minuto mi fanno chiamare da una segretaria, alla quale la Commissione consegna le proprie decisioni. La segretaria, con fare misterioso, forse un po’ vergognandosi, mi dice che dovrò mettermi in contatto con la Motorizzazione per effettuare una prova di guida raccomandandomi di non guidare la macchina sino a dopo l’eventuale omologazione da parte della Motorizzazione.

I componenti della Commissione (eccetto due che non hanno pronunciato una parola) hanno espresso i loro giudizi su di me rimandandomi a un giudizio terzo che sarà emesso da l’ ingegnere della motorizzazione e spero vada tutto bene.

Anche io però ho da formulare un mio giudizio su di loro: si sono rivelati aggressivi, confusionari, per niente professionali.

Bocciati su tutta la linea.


 

“L’angolo dei ricordi” di Nicoletta Onida


Ci sono ritagli della vita che abbiamo vissuto conservati in fondo ad un cassetto dove, ognuno di noi, ha raccolto nel tempo lettere, cartoline illustrate, foto e piccoli oggetti: una moneta antica appartenuta alla vecchia zia, una conchiglia rugosa raccolta durante una vacanza estiva, una penna stilografica regalo di compleanno, una piccola armonica a bocca trovata in casa dei nonni… Ogni oggetto risveglia in noi uno stato d’animo particolare: gioia, affetto, rimpianto del tempo passato. È quello il cassetto dei ricordi perché in fondo ad esso, insieme agli oggetti, ognuno ha riposto sogni, progetti e desideri di gioventù, quando, con atteggiamento fiducioso  ciascuno andava alla ricerca di qualcosa su cui costruire il proprio avvenire.

Quando si è giovani e pieni di salute, crediamo di vivere così per sempre, ma quando diventiamo vecchi e, spesso, incapaci di prenderci cura di noi stessi, ripensiamo con rimpianto al passato, alla giovinezza.

Così, talvolta, riaprendo quel cassetto, sfiorando gli oggetti con mani tremanti rispolveriamo i sogni e le speranze di un tempo lontano. Ed è proprio in quei momenti che, essendo più fragili dal punto di vista emotivo, viene da pensare che senso ha continuare a vivere. Quando, poi, si deve ricorrere al continuo aiuto degli altri ed ai farmaci che, nella maggior parte dei casi, non permettono recuperi miracolosi si viene presi dallo sconforto, dalla paura di perdere i contatti col prossimo, dal terrore dell’isolamento e, in molti casi, dalla depressione. La vecchiaia e le malattie, infatti, rendono la vita più difficile, se per giunta si deve lottare con un sistema sanitario sbagliato tutto appare più faticoso e spesso insormontabile.

Che fare, dunque? Arrendersi? O cercare attorno a noi i motivi, se ce ne sono, per andare avanti?

La giovinezza, forse, non è solo qualcosa da rimpiangere: nel lungo ciclo della vita, è un dono di cui adesso godono altri. Nei loro sorrisi, nelle loro gioie, possiamo rivivere di riflesso le nostre ed essere felici per loro. Ma anche qualora non avessimo avuto la fortuna di crescere delle altre vite, e non potessimo condividere le speranze di chi viene dopo di noi, il tempo che ci rimane ci riserba dei giorni, delle ore, dei momenti di bellezza e di serenità: momenti capaci di sorprenderci, quando giungono, come la comprensione di un amico leale o la carezza inattesa di qualcuno che ci vuole bene sinceramente.

È in quei momenti che sentiremo, nella sua pienezza, il senso della vita.


“I miei ricordi…sempre più strampalati” di Salvatore Faedda


I gelati…di ghiaccio!!!

Nella vita di ciascuno di noi c’è sempre qualcosa da ricordare, difficile da cancellare ma…divertente da raccontare.

Avevo circa 10 anni quando con i miei amici andavamo a rubare il ghiaccio. Il ghiaccio??? Come il ghiaccio??? (direte voi)!!! Si proprio il ghiaccio. La fabbrica si trovava vicino al mercato della carne e noi ci appostavamo all’ingresso dove vi era situato un canale in lamiera utile al passaggio del ghiaccio direttamente sulle motorette che poi dovevano trasportarlo ai vari acquirenti. Per noi riuscire a raccattare qualche pezzo di ghiaccio che succhiavamo alla grande, ci dava l’illusione di mangiare del gustosissimo gelato.

In uno di quei giorni dedicato alla “raccolta” del ghiaccio, mentre stavamo attenti a raccoglierne il più possibile senza farci notare dagli operatori, una grande luce esplose su tutto il prodotto provocando in noi sgomento e paura….quasi da svenimento. Di lì a poco scoprimmo che la sostanza in questione non era altro che l’ammoniaca che veniva versata sui blocchi di ghiaccio.

Quando mio padre venne a conoscenza della nostra rocambolesca avventura, me le diede di santa ragione e, se non ricordo male, da quel momento finì per noi la grande mangiata dei gelati…di ghiaccio.

Le mandorle…amare!!!

Sempre per raccontare una delle tante disavventure giovanili ricordo che verso l’età di 12 anni insieme ad alcuni amici, un bel giorno decidemmo di andare a fare una breve escursione nelle campagne di “Logulentu”. Uno di noi, molto abile a salire sugli alberi, prese subito di mira un mandorlo, vi salì con la velocità al pari di “Tarzan” e cominciò a gettare per terra un congruo numero di mandorle. A cerchio ci sedemmo tutti per terra e subito iniziammo a separare il guscio dal frutto mettendone ogni tanto qualcuna in bocca per assaporarne il gusto. Mentre eravamo intenti ad eseguire quel piacevole esercizio, all’improvviso arrivò il padrone della campagna che, con il viso e la voce abbastanza alterati, non ci consentì di scappare. Subito prese due di noi sotto braccio (me compreso) e accompagnandoci con dolorosi calci nel sedere, ci portò sulla strada principale Sassari-Sennori lasciandoci umiliati e confusi. Tutto questo per una sola manciata di mandorle…amare.

Queste poche righe che ho scritto sono servite per ricordare…ma non per cancellare i miei 10 anni.

Salvatore Faedda


In ricordo di Giuseppe Muglia – testo di Franco Simula


Giuseppe Muglia
Il ciclista, 1995

Da sani, oltre 20 anni fa, ci eravamo incontrati e conosciuti alla Scuola media di Sennori dove io ricoprivo il ruolo di Preside e Giuseppe era stato trasferito come insegnante di Educazione artistica. Si era creato immediatamente un rapporto di reciproca simpatia e col passare del tempo anche di stima e apprezzamento sul piano professionale. Con Giuseppe non poteva essere altrimenti dal momento che Lui sapeva instaurare rapporti paritari con tutti fossero colleghi o alunni e con tutti riusciva ad essere accettato col suo sorriso tra l’ingenuo e l’ironico ma sempre disarmante. Era un inestinguibile fuoco d’artificio di creatività, capace di trascinare i ragazzi non solo insegnando i “fondamentali” di Educazione Artistica ma coinvolgendoli nelle attività più disparate che andavano dalla composizione minuziosa di presepi alla creazione originale di villaggi nuragici o alla paziente composizione di mosaici. Queste attività impegnavano necessariamente più di una classe anche perché i suoi lavori erano di dimensioni imponenti; lo testimonia ancora il grande mosaico, che è collocato all’ingresso della Scuola Media di Sennori, nel quale viene riprodotta una delle attività caratteristiche del paese: la raccolta delle olive. Destini diversi ci hanno portato, negli anni, a perderci un po’ di vista; ma ci ha pensato bene il morbo di Parkinson a farci rincontrare.

” E tu che fai qui? Anche tu hai il morbo di Parkinson?”

” Come puoi vedere il M. di Parkinson non guarda in faccia a nessuno, è cieco, ma colpisce sempre qualcuno seminando immancabilmente disperazione, rassegnazione, accettazione, lotta…impari.

Entrambi ci eravamo iscritti all’Associazione Parkinson e quindi partecipavamo all’attività di fisioterapia; Giuseppe -però- aveva difficoltà a raggiungere il luogo di incontro perché -non avendo rinnovato la patente- non aveva autonomia di spostamento. Concordammo che gli avrei dato un passaggio per l’appuntamento settimanale al quale Giuseppe non voleva mancare perché era certo di trarne giovamento. Nei pochi minuti di tragitto in città la conversazione cadeva immancabilmente sull’argomento che costituiva la sua grande passione: il ciclismo. Fantasticava sulla nuova bicicletta che avrebbe voluto acquistare immaginando il colore, la leggerezza, il tipo di cambio: insomma sembrava doverla andare a ritirare di lì a poco. Davanti a tanta decisione io mi preoccupavo pensando che -anche in bicicletta- l’equilibrio di un malato di Parkinson non è molto stabile; io cercavo di dissuaderlo e lui sembrava convinto di poter fare la grande rinuncia ma la settimana successiva riattaccava col tormentone della bicicletta. Da un certo Giovedì in poi Giuseppe ha cominciato a non presentarsi più all’angolo tra Via Deledda e Via Crispazzu mentre la moglie mi parlava di un aggravamento generale delle sue condizioni di salute.

Per Pasqua sono andato a trovarlo ma Giuseppe era già allettato ma soprattutto aveva perduto il suo consueto buonumore, lo sguardo vivo, il sorriso luminoso e coinvolgente. Aveva già intrapreso l’ultima tappa, l’ultimo tratto di strada: qualche giorno fa la fine. Uomo buono, talvolta ingenuo ma sempre generoso e disponibile.

Ora, finalmente, potrà riprendere a sognare, inforcare la sua bicicletta e inseguire il vento in una corsa infinita. (f.s.)