Volare si Può, Sognare si Deve!

Archivio mensile: Maggio 2015

Su Giuramentu – Il Giuramento di Peppino Achene


Custha no est sa marcia de su Generale Radetzski
chi allegros nos faghet isthare
ma est sa marcia Parkinsoniana
chi pius addossu ti enidi e pius t'isbranada:
a sa lesthra si devet arresthare.
Gai hana nadu sos Generales
de su centru Neurologicu de s'Universidade
e ducas unu pattu hana GIURADU
perintantu un'orchesthra hana formadu.
Praticantes,Assisthentes,Luminares,
tott'umpare si sunt posthos a sonare
sas notas de unu tangu argentinu
unu ballu ducas coment 'e terapia
pro l'impidire s'avanzad'in su caminu.
In campu han ischieradu soldados semplices
e atteros invalidados da-i su malu desthinu.
A duos mastros de ballu su pianu han affidadu
pro lu poder perfettu realizzare
l'han devidu in otto passos isviluppare,
divisu a bell'apposta in tres fraziones
pro impidire a su maleficu sas intentziones.
Sos soldados si sunt posthos a ballare
contendhe unu, duos, trese
no passas né a caddhu né a pese;
battoro,chimbe e sese
a bonu puntu arrivamus a contare
pro poder sa marcia arresthare;
sette,otto, finidu amus eallu de attuare
su ballu terapeuticu chi reattivos nos faghet istare:
pro chi tue maleficu invasore
da inue ses bennidu
a coa in mesu 'e ancas ti che potas torrare.
Questa non è la marcia del Generale Radetzski
che ci fa stare allegri
ma è la marcia Parkinsoniana
che più ti viene addosso e più ti sbrana:
bisogna arrestarla al più presto.
Così hanno detto i Generali
del Centro Neurologico dell'Università
e quindi un patto hanno GIURATO
e intanto un'orchestra hanno formato.
Praticanti,Assistenti, Luminari,
si son messi a suonare tutti insieme
le note di un tango argentino
un ballo, dunque, come terapia
per impedirgli l'avanzata nel cammino.
In campo hanno schierato soldati semplici
e altri invalidati da un perverso destino.
Hanno affidato il piano a due maestri di ballo,
per poterlo realizzare in maniera perfetta
l'hanno dovuto sviluppare in otto passi
diviso a bell'apposta in tre frazioni
per impedire al malefico le sue intenzioni.
I soldati si son messi a ballare
contando uno, due , tre
non passi né a cavallo né a pie';
Quattro, cinque e sei
arriviamo a contare a buon punto
per poter arrestare la marcia;
sette, otto, abbiam dunque finito di attuare
il ballo terapeutico che reattivi ci fa stare:
affinché tu malefico invasore
da dove sei venuto
con la coda fra le gambe possa ritornare

 

Profumo di gelsomino di Nicoletta Onida

Era sempre piacevole, emozionante ritornare a casa della nonna, infatti, malgrado la malinconia per la sua assenza, rientrare fra quelle mura, ravvivare i ricordi del tempo passato e risvegliare la nostalgia di una vita semplice e discreta era, per me, confortante. Addentrarsi in quell’ambiente familiare e ritrovare le vecchie cose rimaste al loro posto mi riportava all’infanzia, al ricordo delle persone che vi abitavano ed ai momenti sereni trascorsi insieme. Nei mesi invernali la casa, priva di riscaldamento, era gelida e mi toglieva la volontà di varcare la sua soglia, ma con l’arrivo della primavera, tutto cambiava e, in me si risvegliava il desiderio di spingere la porta per entrare e ridare vita ad ogni cosa. Così, quando il sole iniziava a intiepidire l’aria fredda ed a rendere gli ambienti più luminosi, puntualmente, riproponevo la mia presenza in quell’ambiente silenzioso; era quasi un dovere, una specie di tacito accordo con la nonna, a cui, non potevo venir meno. Timorosa, facevo il giro delle stanze prive di voci e rumori in cui, ora, polvere e tarli erano sovrani; ritrovavo mobili ed oggetti che avevo sempre conosciuto e mi suscitavano commozione. Accarezzavo con le dita incerte le cose che erano appartenute alla nonna: una vecchia macchina da cucire, il legno rugoso di una cassapanca, una cornice con la foto del nonno sul comodino accanto al letto, dove, il suo vecchio libro di preghiere attendeva ancora di essere aperto. Nella parete in fondo al corridoio c’era un pendolo fermo ad un tempo passato e irripetibile. Di fronte, la grande cucina che, ogni volta, risvegliava in me la voglia di famiglia, di calore e di sostegno; era l’angolo quotidiano della nonna, il suo regno, dove lei imponeva compiti differenti agli oggetti che occupavano un posto preciso: dal piccolo macinino, al paiolo di rame, al fornello a carbone. In fondo, dopo un’ arcata, c’era una scala a chiocciola di legno che conduceva a una vecchia polverosa soffitta; lì giacevano da una vita ogni sorta di mobili ed arnesi: sedie zoppe, un secchio di zinco, fiaschi vuoti su una mensola tarlata, ombrelli senza manico, stivali di cuoio, una vecchia valigia semiaperta contenente giornali illustrati e romanzi dalle pagine ingiallite e, in un angolo, uno dentro l’altro, stavano in piedi vasi di terracotta, vicino ad una trappola per topi ormai inservibile. Ogni cosa aveva per la nonna un valore affettivo, ma, all’epoca, non suscitava in me alcun interesse, anzi, quel buio sottotetto mi faceva paura. Soltanto stringendo la sua mano tremante, dopo aver risalito la scala, giungevo con lei nel solaio, ogni sera al tramonto. Spalancata la porticina di legno, accanto ad un armadio sgangherato, accedevamo alla terrazza, chiusa su tre lati da muri ricoperti di rampicanti, mentre la parte anteriore si affacciava con una ringhiera di ferro sui tetti dei vicini; a volte, la nonna scambiava con essi poche parole. Io amavo stare lì con lei che, a causa della malattia, si muoveva a fatica fra i numerosi vasi di coccio, l’aiutavo a prendersi cura delle sue piante portando via rametti e foglie secche, le porgevo il secchio con l’acqua che, perlopiù, cadeva fuori dalle ciotole fiorite a causa del tremore delle sue mani che io fingevo di ignorare. Subito dopo provvedevo, con fare distratto, a bagnare la terra arida di quei vasi. In quei pochi metri quadrati, dentro i vasi, crescevano rigogliose begonie dai boccioli penduli, garofani profumati, ortensie e gerani con fiori rosa e bianchi, sotto i quali, trovavano posto piccoli contenitori di legno con erbe aromatiche. In una vecchia tinozza, un alberello di limoni cresceva coraggiosamente da quando, anni addietro, dei semi buttati lì erano germogliati. A volte la nonna, mettendomi vicino, controllava la differente altezza e in quel modo si accertava della sua crescita. In un angolo a destra c’era, poi, una vecchia vasca di pietra, un tempo usata per lavare i panni, era addossata ad una parete, dove, un rubinetto di ottone ci permetteva di riempire l’annaffiatoio con cui, ogni sera, irroravamo le piante. Da un lato, la vasca conteneva la terra di numerosi vasi andati in pezzi nel corso degli anni e lì, spontaneamente, era cresciuto un gelsomino diventando così alto e rigoglioso da raggiungere, arrampicandosi, quasi il tetto della casa; era l’orgoglio della nonna. Sembrava che esso avvertisse la tenerezza che la vecchia signora provava per i suoi candidi fiori, per il fatto che, trascorreva molto tempo a ridosso della vasca curando con amore i suoi rametti fioriti arrivando, perfino, a parlare con loro. Il gelsomino ricambiava con una generosa fioritura che emanava un profumo intenso e delicato. In un caldo pomeriggio di giugno, un mazzo di quei delicatissimi fiori accompagnò, col suo profumo, la nonna che aveva aspettato la loro comparsa sui rami prima di lasciare, per sempre, la sua casa.

Quella era la vera ragione che, ogni primavera, mi portava lì: le piante della nonna; non dovevano morire, le avrei curate come aveva fatto lei fino alla fine. Così, dopo l’inverno, ritornai ancora una volta, nella vecchia casa; erano trascorsi parecchi anni dal giorno della sua morte e mi mancava, ancora, moltissimo. Dopo aver ripulito il terrazzo dalle rimanenze della potatura, mi prodigai nella cura delle piante impiegando parecchio tempo a causa di quella particolare lentezza dei movimenti che, da qualche tempo, mi stancava enormemente. In compenso dopo un paio di mesi, le piante ebbero una sorprendente ripresa. Verso la fine di giugno il gelsomino si ricoprì di fiori, ero soddisfatta e, mentre lo innaffiavo, pensavo che la nonna mi guardasse dall’alto con orgoglio. Solo allora mi resi conto che i fiori non emanavano il loro caratteristico buon profumo. Pensai che la pianta fosse vecchia, ma era una cosa assurda, una sciocchezza; subito dopo mi resi conto che, stranamente, neppure gli altri fiori diffondevano il solito buon odore, oppure, ero io a non percepire la loro fragranza.

-Curioso- dissi a me stessa e continuai il lavoro; volevo portarlo a termine prima che facesse buio.

Tornata a casa, durante la cena, chiesi al mio compagno la cortesia di fissarmi un appuntamento con qualche medico suo collega, un otorino; pensavo ad un problema nel sistema olfattivo. Egli, sembrava perplesso, ma in fin dei conti lui era neurologo e sebbene facesse il suo lavoro con grande professionalità, come avevo notato durante la malattia della nonna, ritenevo che il mio problema dovesse essere valutato da altri. Nei giorni seguenti fui travolta da un’infinità di visite ed analisi strumentali che per l’ansia e la tensione mi portavano ad avere anche un lieve tremore.

Purtroppo, qualche settimana dopo, i risultati di esami approfonditi mi diedero torto, il mio disturbo, infatti, era di tipo neurologico; il mio male, anche se solo all’inizio, era quello della nonna. Mi sentivo smarrita, disperata e, nei giorni che seguirono, fui presa dallo sconforto. Avevo sempre pensato che quel male colpisse soltanto i vecchi ed io non lo ero, inoltre, conoscevo bene i problemi derivanti da quel morbo e ne avevo paura. Pensando alla nonna, vedevo davanti a me soltanto difficoltà e sofferenze e, soprattutto, non avevo fiducia nelle cure di cui mi parlava mio marito che io consideravo rimedi apparenti, non reali e definitivi. Il suo affetto, la tenerezza con la quale cercava di infondermi fiducia non erano sufficienti ad incoraggiarmi, a spingermi a guardare avanti con ottimismo. Luglio volgeva al termine, faceva caldo ed io passavo le giornate chiusa in casa e nel mio dolore e, allo stesso tempo, mi sentivo in colpa per il mio compagno che, per non lasciarmi sola, se ne stava nel suo studio a leggere, appisolandosi per il caldo, sui libri. Così, una sera, gli proposi di fare un salto a casa della nonna per controllare le sue piante da tempo dimenticate. Non credevo ai miei occhi quando, giunta nel terrazzo, vidi che, esse, tra le foglie e i rami appassiti cercavano con difficoltà di sopravvivere, pensai di innaffiarle subito con acqua fresca. Corsi verso la vasca di pietra dove c’era il rubinetto e, di colpo, mi bloccai per lo stupore: il gelsomino era lì meravigliosamente fiorito. Pensai alla nonna e gli occhi si riempirono di lacrime; l’arboscello era andato avanti con qualche goccia d’acqua che ogni tanto veniva giù dal rubinetto difettoso. Rimasi incantata ad osservarlo, non sentivo il suo profumo, ma potevo ammirare la sua bellezza; fu allora che capii che anch’io dovevo andare avanti. Il giorno dopo avrei iniziato le cure.

Lettera di Giuseppe Spanu

Mi chiamo Giuseppe Spanu, sono nato a Chiaramonti il 31/07/1947 e ora vivo a Sassari. Sono sposato ed ho due figli, di 34 e di 29 anni. Mia moglie, Assunta fa la casalinga.  Ho lavorato per 32 anni nella Zona Industriale di Porto Torres negli stabilimenti del petrolchimico, dal quale mi sono congedato andando in pensione nel Gennaio 2003.

Ho sempre abitato nella borgata di San Giovanni ed è proprio li che mi sono appassionato a quello che poi sarebbe diventato il mio sport: le bocce.

Ho iniziato a giocare, prendendo parte a tante gare con buoni risultati. Nel 2004 sono stato convocato a far parte della delegazione Sarda per partecipare ai Campionati Italiani per portatori di handicap a Benevento visto che sono poliomielitico alla gamba destra dall’età di sei mesi.

La gara era iniziata nel migliore dei modi, infatti avevo vinto le fasi eliminatorie per poi arrivare alla finale. Proprio li iniziarono i miei problemi: iniziai ad essere accompagnato da una forte tremarella alle braccia e vidi i miei movimenti rallentarsi notevolmente.

Quando tornai a casa dissi tutto a mia moglie e decidemmo di andare a fare delle analisi di accertamento. Risonanza magnetica e scintigrafia celebrale portarono alla luce quella che sino a quel momento era per me una malattia sconosciuta: il morbo di Parkinson. Da allora, con alti e bassi vado avanti con la speranza che un nuovo farmaco possa fermare o addirittura guarire del tutto questa deficienza.

Sono attualmente seguito dal Dott. Paulus e devo dire che dopo aver provato diverse cure, ho forse trovato quella che mi fa stare discretamente bene, permettendomi di fare una vita normale e consentendomi di continuare a fare un po’ di movimento nelle corsie di gioco.

    Sassari 09/12/2011                                                               Giuseppe Spanu

Custa est s’istoria de Peppinu Achene – Questa é la storia di Peppino Achene


Sessantanoe annos, de Tissi,
trintatres annos in-d-unu repasthu 'e su petrolchimicu c'hapo passadu
in ambiente nocivu e a su massimu inquinadu,
inie sa salude c'hapo lassadu.
Cashchi annu primu chi in pensione devia andare
s'azienda hat devidu de su repartu sa calidade e-i- s'operatividade qualificare
a unu cursu de calidade nos hat fattu andare.
Tennidu da-i tecnicos titulados chi da-i fora han fattu arrivare,
sos cales nos hant imparadu comente bene devimis oberare.
Tottu in su pabilu fit bene ispiegadu,
a sa fine in campu sas conditziones de oberare pagu aiant cambiadu.
A chie su corso aiat frequentadu
s'azienda unu premiu l'aiat assignadu:
una medaglia 'e oro cun-d-una Q istampada
pro aer sa calidade agguantada.
Deo custu premiu no l'hapo mai ritiradu.
Pensende chi su direttore pro mi giustificare m'aeret giamadu,
nudda de custhu s'est verificadu.
Una die chi su cabu repartu hapo incontradu
l'hapo domandadu:” Ite fine hat fattu su premiu chi deo no hapo ritiradu”?
Mi rispondet :
“In fundu a su calasciu de s'iscrivania mia ch'est restadu”.
Pius cunvintu de prima hapo pensadu:
“Un'atera ostha s'azienda in giru m'hat leadu”.
Sempre a cuntattu cun su benzene so istadu
custhu velenu no m'hat pesdhonadu
e mister Parkinson m'hat affibbiadu.
In cunflittu cun s'INAIL so intradu
pro mi riconnoschere su male chi su tribagliu m'hat lassadu.
Si no agato caschunu a m'aggiuare
puru sas ispesas mi faghen pagare.
Deo a mister Parkinson de mi lu fagher amigu hapo pensadu
e a sa brazzetta mi l'hapo leadu,
ogni tantu si devet lamentare
e tando pro lu fagher bene istare
sa razione 'e su “bon bon” li devo aumentare.
Farmacos chi dottor Paulus m'hat cossitzadu 'e li dare
pro bi poder vivere pius a longu possibile senza brigare.
Mancu a mie Mister Parkinson hat rispettadu,
sas mezzus cosas ch'aia mi ch'hat leadu (equilibriu,fotza,allegria e salude)
e-i- su tremulone m'hat lassadu.
A cando mi nde so abbizadu
issu de me si fidi impossessadu.
Como bos racconto comente s'est presentadu.
Una die in campagna,finidu 'e bona lena 'e tribagliare,
m'abbizo chi su brazzu drestu no resessia a cumandare
e li naro:”It'est chi hasa chi da-i- su fiancu no ti cheres iposthare”?
gai hapo comintzadu caschunu a chischare.
Andadu so da-i- unu parente a mi lamentare,
subitu hat cumpresu de ite si podiat trattare
e mi rispondet :” Est Vanna chi ti devet visitare”.
Vanna appena m'hat visitadu
in faccia calchi cosa l'hapo notadu
senza nisciuna titubantzia
mi narat:” Est Antoni chi ti devet fagher una “risonanza”.
Subitu s'accordu amus leadu
a fagher sa “risonanza” so andadu.
De s'inconveniente m'hant informadu.
Ogadu mi nd'hant sa estimenta mia
e addossu unu camice mi che ponia.
Una ostha sistemadu,
intro 'e unu tunnel mi c'hant zaccadu
no mi piaghet de ammentare su chi hapo intesu e passadu!
Rumores de ogni calidade:
canes baulende,
caddos in s'asfaltu trottende,
trenos a totta velocidade currende,
aereos bombasdhende,
sa contraerea isparende,
tottu in giru tremende,
e-i s'ira 'e Deus in terra falende.
Finida sa proa ando a mi nde pesare
sonadu comente una campana
no ischia a cale pasthe mi dare.
S'infermieri chi mi fit assistende
cando m'hat bidu tambulende,
a da-i nanti si faghiat nende:
“Sezzasi inoghe chi su duttore est benzende”
Su duttore Antoni arrivat mesu seriu e nudda riende
nendemi:” No ti preoccupes Peppinu su problema l'affrontamus fatzilmente
a su professor Sechi unu piaghere devo dimandare
s'est possibile ch'issu ti potat visitare.
Li ripondo:” Su chi faghes tue andat bene, no lu poto negare”.
Su professore subitu un appuntamentu mi hat fissadu.
Daghi fia adainanti de custu luminare hat incominzadu a mi interrogare.
Chie ses, ite mestiere faghes pro campare.
Tottu l'hapo raccontadu:“Oe so pensionadu ma ogni die a campagna devo andare pro caschi cosa contivizare.
Prima trintatres annos de turnu in su petrolchimicu
appo fattu pro poder sa vida affrontare.
Sempre a cuntattu cun benzene e derivados so devidu istare;
tottu hapo fattu da-i su manovale a su caporale
incurante chi sa salude mi podiat minare.
Est inutile raccontare
chi meda bostas seighi oras sa die a cuntattu cun custhu velenu devia isthare
cun pagos mezzos pro mi poder riparare.
Su professore tottu cun attintzione hat ischusthadu.
Tottu sos esames chi l'hapo giuttu hat controlladu
“Corchessi incue”, poi m'hat nadu.
E subitu m'hat visitadu.
Cun sa conca isconculende m'hat naradu:
“Inoghe no c'hat ite isbagliare,
su Parkinson s'hat leadu”.
Pro unu pagu 'e tempus m'hat curadu
e in pasthe 'ene so isthadu.
Poi una bella die m'hat nadu:
“Su compitu meu cun vostè est usthimadu”.
Inutile negare: bene no bi so istadu.
Su professore de custhu sind'est abbitzadu.
Mi narat:”A un atteru duttore bravu pius de me lu devo affidare”.
Lu ringrazio immensamente e cun riconnoschentzia
pro tottu su chi m'hat dadu
e cun tristesa l'hapo saludadu.
Cando mi che fia andende sa manu in pala m'hat appoggiadu e mi narat pro m'incoraggiare:
“Hat a bider chi continuat bene a istare”!
Oe a distantzia de annos no intames de tottu si continuat a trampisthare
in autonomia senza sos ateros disthubare.
Si riprendet torra a cabidanni
Su duttore Paulus già l'ishchid'issu comente lu trattare.

Peppinu Achene
Sessantanove anni, di Tissi.
Ho trascorso trentatre anni in un reparto del Petrolchimico
in un ambiente nocivo e inquinato al massimo
lì ci ho lasciato la salute.
Qualche anno prima di andare in pensione
l'azienda ha dovuto qualificare la qualità e l'operatività del reparto
e ci ha fatto partecipare a un corso di qualità.
Tenuto da tecnici titolati, che avevano fatto arrivare dall'esterno,
i quali ci hanno insegnato come -bene- dovevamo operare.
Sulla carta tutto era ben spiegato,
ma in conclusione le condizioni di operare sul campo di poco erano cambiate.
A chi aveva frequentato il corso
l'azienda aveva assegnato un premio:
una medaglia d'oro con una Q stampata
per aver conseguito la qualità.
Io questo premio non l'ho mai ritirato.
Pensavo che il direttore mi chiamasse per giustificarmi
ma di tutto ciò non si è verificato niente.
Un giorno che ho incontrato il capo reparto gli ho chiesto:
“Che fine ha fatto il premio che io non ho ritirato”?
Mi risponde:”E' rimasto in fondo al cassetto della mia scrivania”.
Più convinto che mai ho pensato:
“Ancora una volta l'azienda mi ha preso in giro”.
Sono rimasto sempre a contatto col benzene
e questo veleno non mi ha perdonato
ma mister Parkinson mi ha affibiato.
Sono entrato in conflitto con l'INAIL
perché mi si riconoscesse il male che mi aveva procurato il lavoro.
Se non trovo qualcuno che mi aiuta
mi faranno pagare anche le spese.
Io, intanto, ho pensato di farmi amico mister Parkinson
e me lo son preso a braccetto,
ogni tanto si deve lamentare
e allora per farlo star bene
gli devo aumentare la razione del “bon bon”.
Farmaci che il dottor Paulus mi ha consigliato di dargli
per poterci vivere il più a lungo possibile senza litigare.
Mister Parkinson non ha rispettato neppure me
mi ha preso le cose migliori che avevo (equilibrio,forza,allegria e salute)
e mi ha lasciato il tremore.
Quando me ne sono accorto
lui si era già impossessato di me.
Adesso vi racconto come si è presentato.
Un giorno, in campagna, dopo aver finito di lavorare di buona lena
mi accorgo di non riuscire più a comandare il braccio destro
e gli dico:”Che cos'hai che non ti vuoi spostare dal fianco”?
E così ho cominciato a cercare qualcuno.
Sono andato da un parente a lamentarmi,
subito ha capito di che cosa poteva trattarsi
e mi risponde:” E' Vanna che ti deve visitare.
Vanna appena mi ha visitato
le ho notato in viso qualche sospetto
senza alcuna titubanza mi dice:
“ E' Antonio che ti deve fare una “risonanza”.
Immediatamente abbiamo concordato
e sono andato a fare la “risonanza”.
Mi hanno informato dell'inconveniente.
Mi hanno fatto togliere i miei abiti
e addosso mi hanno infilato un camice.
Appena sistemato
mi hanno infilato dentro un tunnel:
non mi piace ricordare ciò che ho passato e sentito!
Rumori di ogni tipo:
cani che abbaiavano,
cavalli che trottavano sull'asfalto,
aerei che bombardavano,
la contraerea che sparava,
tutto che tremava intorno,
e l'ira di Dio che scendeva sulla terra.
Concluso l'esame provo ad alzarmi:
suonato come una campana
non sapevo da che parte darmi.
L'infermiere che mi assisteva
quando mi ha visto vacillare
mi si para dinnanzi dicendo:
“ Si sieda qua che sta arrivando il dottore”.
Il dottor Antonio arriva mezzo serio, e per niente ridendo mi dice:
“ Peppino non preoccuparti,il problema lo affrontiamo facilmente
dovrò domandare un favore al professor Sechi
se è possibile che Lui possa visitarti.
Gli rispondo:”Ciò che fai tu va bene non posso negarlo” Il professore mi ha fissato subito un appuntamento.
Quando mi trovai di fronte a questo luminare lui ha cominciato a interrogarmi.
Chi sei, che mestiere fai per campare.
Tutto gli ho raccontato:” Oggi sono un pensionato
ma ogni giorno devo andare in campagna per coltivare qualche cosa.
Prima ho fatto trentatre anni di turni al Petrolchimico
per poter sopravvivere.
Son dovuto rimanere sempre a contatto col benzene e i suoi derivati;
ho fatto tutto: dal manovale al caporale.
Incurante che tutto ciò potesse minare la mia salute.
E' inutile raccontare che molte volte
son dovuto rimanere a contatto con questo veleno per sedici ore
con pochi mezzi a disposizione per potermi riparare.
Il professore ha ascoltato tutto con attenzione
ha controllato tutti gli esami che gli ho portato
e poi mi ha detto :” Si corichi lì”.
E subito mi ha visitato.
Scuotendo il capo mi ha detto:
“ Qui non c'è da sbagliarsi, lei si è preso il Parkinson”.
Per un po' di tempo mi ha curato lui stesso
e in parte sono stato bene.
Poi un bel giorno mi ha detto:
“ Il mio compito con lei è terminato”.
Inutile negarlo: non ci son rimasto bene:
Il professore si è accorto di ciò.
Mi dice:”La voglio affidare a un medico più bravo di me”.
Lo ringrazio immensamente e con riconoscenza
per tutto ciò che mi ha dato e con tristezza l'ho salutato
Quando stavo andando via appoggiandomi una mano sulla spalla
mi dice per incoraggiarmi:
“Vedrà che continuerà a star bene”!
Oggi, a distanza di anni, nonostante tutto
si continua a sopravvivere in autonomia senza disturbare gli altri.
Si riprende di nuovo a settembre.
Il dottor Paulus sa già Lui come trattarla.

 

 

 

 

 

 

 

1° Maggio 2015: festa campestre a Padria, con impresa eroica


Antonio invita alla festa del 1° maggio a Padria. Però, chi per febbre, chi per altri impegni, l’invito sembrava cadere nel vuoto. Verso le undici, comunque, una macchina parte da Sassari in direzione Padria; strada facendo viene avvertito Peppino che non si fa pregare ed insieme a Nanna raggiunge gli amici a Padria. La giornata si fa splendida, si apparecchia sotto delle querce di sughero. Si chiacchiera, si ride, si mangia e si beve, si fa amicizia e si incontrano altri amici; i bambini si divertono sui gonfiabili. Insomma, si sta bene insieme. foto by Renzo Sgaravato - Bosa Sardinia Italy

Padria – Torrente Sentale ( Sa Entale) “Caddu Muzzu” – foto by Renzo Sgaravato

Nelle vicinanze c’è una cascata. Ajo’, ci si mette in marcia. Ci è stato spiegato che la cascata è bellissima ed imperdibile, ma ci è stato omesso che è quasi impossibile accederci essendo ubicata in un profondo e ripidissimo burrone e l’unico, ripido e stretto accesso è barricato da spaventosi roveri che neanche il principe della Bella addormentata sarebbe riuscito a vincere. Ma la piccola comitiva della Parkinson Sassari non si fa intimorire e così si decide senza temporeggiare di affrontare l’impresa, più che eroica, irresponsabile. Ed ecco il nostro vicepresidente trasformarsi in Principe assistendo la sua Nanna a calarsi centimetro dopo centimetro nella gola calcarea. Dopo interminabili e faticosi 20 minuti si giunge finalmente giù e si apre davanti a noi uno spettacolo magnifico: una selvaggia cascata versa dall’alto masse di acqua nervosa e chiassosa in un lago buio e nascosto. I bimbi si divertono a lanciare sassi nell’acqua, e gli adulti non sono da meno facendo a gara a chi fa fare più salti sull’acqua a dei piccoli sassolini. Dopo questa splendida sosta in mezzo alla natura incontaminata della regione del Logudoro-Meilogu ci aspetta la risalita. Detto tra noi, ne avrei fatto volentieri a meno, ma per i nostri eroi il ritorno non rappresenta alcun problema. I bimbi si arrampicano in fretta ed il Principe aiuta teneramente la sua sposa. Tra pause per riprendere fiato e risate per le battute sarcastiche, tipo: “Gente, non temete, il nemico non ci insegue.” “Certo, mica è scemo!”, si guadagna gradualmente la luce del sole. Arrivati in alto, nessuno aspetta i nostri eroi, neanche una tenda ossigeno oppure il 118; ma la consapevolezza di aver vissuto qualcosa di grandioso fa dimenticare graffi, dolori e stiramenti vari. Finisce così una tanto improvvisata quanto stupefacente gita nella antica Gurulis Vetus di età romana, Padria appunto.